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È possibile conciliare le ragioni della scienza come progresso di conoscenze e miglioramento della salute dell’uomo con quelle dell’etica, che impone un trattamento “umano” di tutti gli organismi viventi? Come affiancare a una buona qualità della ricerca, una buona qualità di vita degli animali, minimizzandone le sofferenze? Interrogativi, questi, tornati di attualità nelle scorse settimane, dopo la vicenda dei 2500 beagle dell’azienda Green Hill di Montichiari (Brescia), affidati alle cure di migliaia di famiglie italiane. Proprio in queste settimane è in dirittura d’arrivo l’iter legislativo per la ratifica, entro il 10 novembre prossimo, da parte dell’Italia della direttiva europea “Sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici”. In vista di questa scadenza, la Lega antivivisezione (Lav) ha promosso una raccolta di firme. L’associazione chiede maggiori restrizioni come, ad esempio, l’introduzione del divieto di allevare in Italia cani, gatti e primati a scopo sperimentale, il bando di qualsiasi specie animale per esperimenti su sostanze d’abuso (alcol e droghe) e detergenti domestici, per test bellici o xenotrapianti e l’introduzione di metodi alternativi. Contemporaneamente è nata l’iniziativa Stop Vivisection che, tramite una raccolta di firme a livello europeo, chiede l’abrogazione della norma contestata. Abbiamo rivolto gli interrogativi a Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e Claude Reiss tossicologo molecolare, ex direttore di ricerca al Consiglio nazionale per la ricerca francese (Cnrs) di Parigi e presidente di Antidote Europe, una società privata che promuove lo sviluppo di metodi alternativi alla sperimentazione animale.
Quanto è ancora indispensabile la sperimentazione animale nella ricerca scientifica?
Claude Reiss: “La ricerca animale per scopi veterinari è legittima: nessuna preoccupazione, ad esempio, per la ricerca sui gatti finalizzata a salvare altri gatti. Ma nessun veterinario sano di mente cercherebbe nei cani una cura per le malattie dei gatti, semplicemente perché sa che un cane non è un modello attendibile per un gatto. Allo stesso modo, nessun uomo sano di mente consulterebbe mai un veterinario per ricevere consigli sulle proprie malattie renali o cardiache. Il fatto che qualunque specie non rappresenti un modello affidabile per le altre è una questione di buon senso, ma può essere anche provata rigorosamente. Una specie è, infatti, definita dal suo isolamento riproduttivo: un gatto non può incrociarsi con un cane, né un cavallo con una mucca. Questo perché l’informazione genetica di ogni specie, depositata nei suoi cromosomi, è strettamente specie-specifica e non può essere complementare a quella di nessun’altra. Se, ad esempio, un individuo di una specie “modello” (come un ratto) è esposto a una sostanza chimica o affetto da una malattia, reagirà accendendo o spegnendo certi suoi geni. Un’altra specie (come l’uomo) risponderà, invece, al medesimo stress attivando o inibendo geni differenti da quelli del ratto. Per esempio, gli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi nella scala evolutiva, sono del tutto immuni all’Hiv-1, virus responsabile dell’Aids nell’uomo e sono di rado infettati dal virus dell’epatite B (solo 1 su 10 svilupperà una forma blanda di epatite per una settimana, mentre l’uomo spesso sviluppa epatiti croniche e 1 su 4 forme di cancro al fegato). Nessuno è in grado di predire questi risultati. Affermare che gli animali sono ‘modelli per le malattie umane o le valutazioni di tossicità è una pura mistificazione. La sperimentazione animale non solo è superflua, ma fornisce false credenze, dannose per la salute umana”.
Silvio Garattini: “L’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica, allo stato attuale delle conoscenze e delle tecnologie disponibili, resta una necessità e non un’opzione. Lo impongono le regole internazionali per l’introduzione in commercio di nuovi farmaci, dettate dalla preoccupazione di ridurre i rischi del loro utilizzo da parte degli esseri umani. Senza la fase obbligatoria di sperimentazione di un farmaco o di una protesi sugli animali, ad esempio, si rischierebbe, come avvenuto in alcuni casi in passato, di creare gravi danni alla salute di migliaia di persone. Sappiamo benissimo che i modelli animali sono delle approssimazioni rispetto all’uomo e che in alcuni casi la risposta al principio attivo è diversa, ma, per la gran parte delle funzioni che debbono essere valutate, la risposta risulta molto simile a quella umana. L’affinità genetica dei modelli animali più utilizzati è sempre superiore al 90% rispetto all’uomo. Come l’uomo, un topo o un cane hanno un cervello, un cuore, un fegato, i reni, un sistema riproduttivo, ormonale, circolatorio, immunologico. C’è una somiglianza con gli esseri umani per il numero dei geni, e anche le proteine animali sono molto simili alle nostre. Grazie all’utilizzo degli animali nella sperimentazione scientifica si sono debellate malattie che ogni anno nel mondo mietevano milioni di morti e si è riuscito a cronicizzare, con una buona qualità della vita, malattie mortali come l’Aids. Al fondo del dibattito, prescindendo per un momento anche dalle regole internazionali, occorre però onestamente pronunciarsi se si ritiene che gli animali debbano essere equiparati all’uomo, oppure se la salute umana, fatte salve tutte le regole di salvaguardia nel trattamento degli animali, sia prioritaria.
È corretto parlare di vivisezione? Com’è possibile conciliare le ragioni della ricerca con gli aspetti etici, come il rispetto per gli animali?
Reiss: “La sperimentazione animale è priva di senso. Non si possono conciliare i due aspetti”.
Garattini: “La parola vivisezione è utilizzata strumentalmente dalle organizzazioni animaliste per impressionare l’opinione pubblica e sottrarsi a un confronto razionale. Infatti, sanno benissimo che nessuno interviene chirurgicamente su animali non anestetizzati e che quella chirurgica è una parte molto secondaria della sperimentazione scientifica. La legislazione italiana, peraltro già oggi molto più severa della stessa direttiva europea, impone regole molto più rigide a tutela del benessere e del rispetto degli animali. Prevede a priori una valutazione da parte di un comitato indipendente sull’opportunità di utilizzare animali in una determinata sperimentazione, un’autorizzazione ministeriale, regole molto stringenti sulle condizioni ambientali in cui vanno tenuti gli animali e controlli frequenti da parte degli organi pubblici preposti a verificare la loro effettiva tutela. All’Istituto Mario Negri quelle disposizioni e le relative condizioni sono quotidianamente controllate e rispettate. Dove non vengono rispettate vanno perseguite, senza mettere strumentalmente in discussione le ragioni della ricerca scientifica”.
Quali sono gli animali più usati nei laboratori?
Reiss: “Roditori, principalmente topi e ratti. Le ragioni sono la facilità di allevamento e i bassi costi”.
Garattini: “Quasi il 95% degli animali impiegati in Italia, secondo i dati del ministero della Salute relativi al 2009, sono topi e ratti. I cani utilizzati sono stati 807. In tutte le sperimentazioni farmacologiche le regole internazionali riguardanti i test tossicologici prevedono che il farmaco venga testato su due tipologie diverse di animali. Oltre ai topi, si richiede un tipo di animale di dimensione superiore. Possono essere cani, ma anche maiali o scimmie, a seconda del tipo di apparato su cui bisogna indagare. Si ricorre, ad esempio, ai beagle perché hanno caratteristiche di resistenza e docilità, ma va ricordato che ci sono anche altre razze canine che vengono utilizzate a seconda del tipo di sperimentazione”.
Quali sono le dimensioni del fenomeno?
Reiss: “È difficile avere un quadro aggiornato. La Francia, ad esempio, non ha fornito dati aggiornati dal 2007. Per l’Unione europea si può ipotizzare una cifra dell’ordine dei 12 milioni di soggetti l’anno”.
Garattini: ”L’utilizzo di animali nella sperimentazione scientifica non è un vezzo, venato di sadismo, da parte di ricercatori conservatori, come vorrebbero far credere gli animalisti. Grazie allo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie, l’utilizzo degli animali si è fortemente ridotto negli ultimi decenni. In Italia, secondo i dati pubblicati dal ministero della Salute, nel 2009 sono stati poco più di 800.000 gli animali impiegati nella ricerca scientifica. All’Istituto Mario Negri venticinque anni fa impiegavamo circa 120.000 ratti o topi ogni anno, oggi siamo a circa 15.000″.
La Lav ha promosso una raccolta di firme per modificare la direttiva europea, in vista della ratifica italiana entro il 10 novembre prossimo. Cosa andrebbe introdotto, secondo lei, che attualmente la direttiva europea non prevede?
Reiss: “La direttiva europea 2010/63 ha sostituito la vecchia direttiva 86/609. Quest’ultima prevedeva che “nessuna sperimentazione animale dovrà essere realizzata in presenza di ragionevoli alternative che non coinvolgano animali”. Noi abbiamo promosso un’azione contro la Commissione europea per mancata applicazione della direttiva 86/609, proprio per non aver permesso la valutazione di tossicità delle sostanze chimiche attraverso metodi alternativi, come l’utilizzo di colture cellulari umane. La Commissione europea ha, pertanto, deciso di modificare questo articolo della vecchia direttiva, affermando che “tocca ai singoli stati membri decidere se adottare metodi alternativi”. In questo modo, se una società ha problemi a effettuare test su animali in un paese, può farlo in un altro più tollerante. Noi chiediamo che vengano reintrodotte e applicate severamente le vecchie disposizioni di legge”.
Garattini: “Per quanto riguarda la direttiva europea, penso che vada semplicemente recepita. La Lav, come altre associazioni animaliste italiane ed europee, ha partecipato negli anni scorsi a tutti gli incontri promossi dalla Commissione europea in preparazione della direttiva, che è il risultato di un lungo e approfondito confronto tra punti di vista differenti. La raccolta di firme è, dunque, solo una mobilitazione politica per allargare la propria base di consenso, volta a capitalizzare emotivamente iniziative come quella di Green Hill, ma che non ha nessuna possibilità di incidere a livello comunitario”.
Che peso ha una corretta sperimentazione animale nelle verifiche compiute dalle riviste scientifiche prima della pubblicazione di uno studio?
Reiss: “Dipende dalla rivista. Alcune sono piuttosto elastiche e accettano di pubblicare ricerche con dati basati su modelli animali. Altre non lo fanno. Altre ancora chiedono la prova che nessun metodo alternativo sia stato trovato per quel tipo di studio. La questione evolve piuttosto lentamente”.
Garattini: “Un peso rilevante. L’illustrazione delle modalità di utilizzo degli animali nella sperimentazione è parte integrante della documentazione che viene fornita alle riviste scientifiche quando s’invia loro uno studio per la pubblicazione. Lo studio pubblicato, a sua volta, è oggetto di discussione e di critica da parte di altri gruppi di ricercatori. Se emerge che non si sono rispettate le norme a tutela del benessere animale, il ricercatore o i ricercatori rischiano di essere messi al bando dalle riviste scientifiche più autorevoli”.
Quali sono le concrete alternative ai test sugli animali?
Reiss: “Poiché non esiste alcun modello animale adatto, abbiamo una sola opzione: essere noi stessi il modello. Per le valutazioni di tossicità, ad esempio, gli studi devono essere condotti non su animali ma su tessuti o cellule umane. Per questa ragione noi siamo stati i primi in Europa ad adottare la “tossicogenomica”. Una metodica che consiste prima nella valutazione della tossicità delle sostanze chimiche attraverso l’esposizione diretta a colture cellulari umane. Poi nell’identificazione e misura dell’attività genica in queste cellule. E infine nell’analisi degli effetti tossici sulle funzioni biologiche regolate dai geni che hanno subito mutazioni”.
Garattini: “Non ci sono, al momento, alternative. Ci sono metodi complementari che sempre meglio aiutano a ridurre il numero di animali utilizzati. Se l’animale non è un modello perfetto rispetto all’uomo, tanto meno sarà esaustivo un test su cellule isolate in una provetta che, come struttura, sono ancora più lontane dall’uomo. Utilizzando solo gruppi di cellule, come sostengono gli animalisti, non si può verificare, ad esempio, se hanno fame, provano dolore o hanno problemi cardiaci. La ricerca cosiddetta in vitro (su cellule) e in silico (al computer) è parte integrante e maggioritaria dell’attività di studio che quotidianamente si svolge nel nostro Istituto. Lo sviluppo tecnologico, che ha messo a disposizione sofisticate apparecchiature diagnostiche, come TAC, risonanze magnetiche ecc., a misura di animale, ha permesso di ridurre drasticamente il numero di animali necessari a verificare l’andamento di una determinata malattia. Da ultimo, ma non meno importante, voglio ricordare che le sperimentazioni hanno consentito di realizzare numerosi farmaci per curare gli animali stessi e debellare loro specifiche malattie”.
Qualsiasi siano le ragioni, etiche, politiche e anche economiche, la possibilità di trovare alternative all'utilizzo di animali è ben vista da entrambi gli schieramenti. Cosa si intende dunque per “metodo alternativo”? Si tratta di tutte le procedure che permettono di ridurre (o addirittura sostituire) l'animale nella sperimentazione, ma anche di limitare le sofferenze animali.
La legge delle tre R A far riflettere su queste eventualità è stata la cosiddetta “legge delle tre R” (Replacement, Reduction, Refinement), elaborata nel 1959. Per rendere più eticamente accettabile la sperimentazione sull'animale sarebbe necessario considerare la possibilità di sostituire [Replacement significa sostituzione], là dove possibile, la pratica della vivisezione con altre metodologie altrettanto efficaci. Al più si auspica di ridurre [Reduction significa riduzione] il numero delle sperimentazioni e di raffinare i metodi [Refinement significa raffinamento], per evitare la sofferenza e lo stress degli animali.
I computer (e non solo) al servizio dell'uomo e dell'animale Le tecnologie più moderne consentono di ottenere risultati importanti per esempio lavorando sulle colture cellulari che forniscono dati parziali, ma veritieri in quanto prodotte utilizzando materiale biologico della specie umana, verso la quale si compie la ricerca. Le simulazioni al computer, come i modelli matematici e speciali software, consentono di prevedere gli effetti biologici di alcuni composti. Come? Per esempio, partendo dalla disposizione spaziale degli atomi di una molecola.
Non tutte le metodologie senza animali possono essere utilizzate nei test previsti dalla legge, ma solo quelle validate, ossia dichiarate affidabili (riproducibilità nel tempo e in laboratori diversi) e rilevanti (significatività e utilità di una procedura per lo scopo prefissato). L’iter di validazione previsto dalla normativa europea, lungo e complesso, ha di fatto rallentato l’introduzione e la diffusione delle metodologie alternative disponibili. Il paradosso? I test sugli animali previsti dalla legge vengono utilizzati senza essere mai stati validati (e nemmeno potrebbero esserlo perché mancanti dei requisiti richiesti).
In alcuni ambiti gli animali sono già stati totalmente rimpiazzati: è il caso dei crash test, della didattica, dei test di tossicità nel settore cosmetico. Moderne tecniche di imaging (TAC e risonanza magnetica per fare due esempi) sono utilizzate nello studio del cervello umano al posto degli esperimenti sui primati, colture in vitro di cellule e tessuti umani trovano impiego nella sperimentazione di nuovi farmaci, mentre altri metodi basati direttamente sull’uomo (ricerca clinica, epidemiologia, statistica etc) si rivelano efficaci nello studio delle malattie. Inoltre, simulazioni elettroniche di esperimenti sono in grado di prevedere, grazie a modelli matematici e speciali software, gli effetti biologici di alcuni composti chimici.
In ambito didattico, modellini di animali ed esseri umani, video, simulazioni computerizzate, esperimenti su colture cellulari e pratica clinica sono metodi che per legge devono essere utilizzati al posto degli animali (fatta salva la sperimentazione in deroga). Sta inoltre facendosi strada la genomica (branca della biologia molecolare che si occupa dello studio del genoma degli organismi viventi): le ricerche in corso sul genoma umano sono fortemente orientate a prevedere lo sviluppo di possibili malattie e a valutare in anticipo l’efficacia, anche a livello individuale, di nuovi farmaci.
I casi portati come esempi di sperimentazioni errate sono numerosi: il tranquillante Talidomide, che negli anni Sessanta causò la nascita di dieci mila neonati deformi, oppure lo spray Isoproterenol che nel 1973 uccise migliaia di asmatici. Questi farmaci, pur avendo superato la prova sugli animali, ebbero effetti devastanti sugli uomini. Per i ricercatori si tratta di margini di errori imprevedibili o il terribile risultato di una sperimentazione mal condotta.
I fallimenti della sperimentazione Eppure questi errori continuano ancora oggi a mietere vite umane: come nel caso del Mediator, medicinale utilizzato per la cura di diabete e l’obesità, ritirato dal mercato il 14 ottobre scorso perché in Francia avrebbe provocato tra i 500 e i 1.000 morti.
E il fumo? Già nel 1950 era nota la sua correlazione con il cancro ai polmoni. Tuttavia, gli studi effettuati per confermare l’evidenza epidemiologica non riuscirono a dimostrare il legame tra sigarette e tumore in quanto non fu possibile indurre il cancro negli animali utilizzati per gli esperimenti. E così anche per amianto, arsenico, benzene, alcool e lana di vetro, tutte sostanze risultate innocue per gli animali ma dannose per l’uomo.
Dunque la sperimentazione serve? Gli animalisti sono convinti di no e spiegano le proprie ragioni.
Un errore metodologico. L’assunto di base è questo: se nessuna specie animale è paragonabile in toto all’uomo (come dimostrano le diverse sostanze immesse sul mercato sicure per gli animali ma rivelatesi letali per gli esseri umani), questo significa che la sperimentazione finale di fatto avviene sull’uomo, rendendo vana la morte di milioni di animali. In campo oncologico, per esempio, le stesse sostanze chimiche possono essere cancerogene per l'uomo e non per il topo e viceversa.
La tutela giuridica. I test effettuati su animali garantirebbero un’irrinunciabile copertura legale alle case farmaceutiche tutelandole in caso di inaspettati effetti nocivi sull’uomo di nuovi farmaci immessi sul mercato.
Lo stress rende tutto inattendibile. Lo stress cui sono sottoposti gli animali nei laboratori invaliderebbe irrimediabilmente i risultati degli esperimenti rendendoli inattendibili. E sarebbe proprio per questo motivo che uno stesso esperimento effettuato su animali geneticamente identici ma in laboratori diversi dà spesso risultati differenti.
La carriera e le ricerche inutili. L'accusa spesso avanzata è che si continui a realizzare ricerche per rispondere a domande a cui si conosce già la risposta. Perché? Testare su animali sarebbe un modo per pubblicare più facilmente i propri studi, consentendo una carriera accademica più rapida rispetto a quanto sarebbe possibile fare con la ricerca clinica: la vita di un roditore è molto più breve, di conseguenza le malattie si sviluppano più in fretta.
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