Casa Supaku Handoru

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  1. Supaku
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    01. Inizi.



    I pochi soldi che Supaku aveva racimolato grazie ai lavori più disparati, intrapresi durante il suo viaggio fino alla terra del Vento, non erano stati sufficienti a procurargli una bella casa.
    La maggior parte del suo denaro era stato speso per entrare all'accademia. Il resto, ben poco, era rimasto per procurargli un tetto sopra la testa.

    Aveva preso un appartamento in un seminterrato di uno dei grandi condomini nel centro di Suna, costavano poco e non erano così difficili da gestire, considerato il fatto che erano composti solo da una stanza.
    Il bagno era comune, ma questo non lo aveva mai infastidito. La stanza era grande sette passi in larghezza e sette in lunghezza. Un cucinotto era incassato in una parete e lui non lo aveva mai utilizzato, non sapeva cucinare.
    Il letto era un semplice materasso, era comodo perché poteva essere ripiegato e messo da parte, dentro all'armadio a muro dall'altra parte della stanza.
    Oltre a questi due elementi la sua stanza era completamente spoglia di qualsivoglia ornamento. Puzzava di umidità e muffa, l'intonaco si crepava sul soffitto e la carta da parati sulle pareti veniva via facilmente. Era un brutto posto dove vivere, però, considerando che lo aveva pagato pochi Ryo, era un ottimo poso dove dormire.

    Supaku passava la maggior parte del tempo all'aperto. La sua passione era camminare sui tetti, là, dove il vento era più forte.
    Amava la sensazione del vento tra i suoi capelli bianchi, quella dolce e fredda carezza sul volto.
    Era stupendo, assolutamente stupendo.
    Amava uscire di notte, quando l'aria era più fredda, perché gli ricordava la sua terra. Il caldo torrido del mattino era alquanto insopportabile e la luce gli feriva gli occhi grigi con violenza. I suoi raggi rimbalzavano sulla bianca sabbia, sulle pareti color crema degli edifici, non sapeva mai dove guardare perché ovunque c'era luce.
    Era terribile.
    Ma la notte....la notte trasformava quel mondo arroventato e luminoso in qualcosa di diverso, di molto più bello.
    Le dune che risplendevano al sole come un mare di luce, nella notte diventavano onde chiare sotto un cielo stellato e gli trasmettevano un infinito senso di calma.
    Come un mare perennemente immobile gli davano quella quiete che raramente raggiungeva il suo cuore.
    Era allora che si allenava. Cercava i campi di addestramento, oppure semplicemente i tetti piatti dei condomini, dove esercitarsi nelle sue tecniche.
    Era allora che chiamava il vento.
    Gli dava un senso di controllo ogni volta che il vento obbediva ai suoi sigilli, che spazzava via la sabbia dai tetti o catapultava i manichini di addestramento lontano da lui. Aveva fatto a lungo pratica, pensava di essere pronto ma sapeva che gli mancava ancora molto. Doveva trovare qualcuno che lo addestrasse, che gli insegnasse.
    Un maestro.
    D'altronde era per questo che era giunto a Suna, la capitale del deserto, per cercare i migliori maestri che gli insegnassero i segreti del vento.

    Supaku era seduto su uno dei tetti della città. Il sole stava da poco sorgendo, la sua luce bianca stava già cacciando lontano il blu intenso della notte, lontano da lui.
    Sospirò mentre le stelle schiarivano scomparendo nell'azzurro del mattino.
    Un'altro giorno era cominciato.
    Si alzò in piedi. Era tempo di tornare alla sua casa, di dormire con quell'odore di muffa e polvere a coprirlo come una coperta. Era tempo di andare avanti, di diventare più forte di ieri.
    Era tempo di cercarsi un maestro.



    Sogno, narrato


    Correva. Ormai non si ricordava più perchè lo faceva, non ricordava da chi scappava, lo faceva e basta. Ogni giorno sempre in movimento, non smetteva mai di camminare, correre, scappare. Era terribile ma era l'unica cosa che gli dava sicurezza. Era giunto nei pressi di una piccola baracca costruita vicino ad un bosco. La sua casa era stata distrutta da tempo, bruciata fino alle fondamenta.
    Ancora aveva nei capelli le ceneri.
    La baracca si reggeva in piedi per miracolo, il tetto era in più punti sfondato, le finestre prive di vetri erano state coperte con pelli. La porta aveva un buco procurato molto probabilmente dall'impatto di un'arma. Una grossa chiazza di sangue macchiava il muro esterno a destra della porta. Era là che si era appostato. Tra le mani aveva un pezzo di ferro appuntito, un tempo era stato un coltello da cucina, adesso era solo un'arma. Non ricordava quando era l'ultimo giorno che aveva mangiato. Non ricordava il giorno in cui aveva chiuso gli occhi per dormire. C'era una sola cosa da fare: scappare.
    Almeno fino a quando il corpo avesse retto. Era tremendamente vicino alla fine, i suoi occhi erano cerchiati da occhiaie scavate, il suo corpo smagrito dalla fame tremava anche dal freddo. Aveva fame. Per questo si era fermato, per questo aveva posto una tregua a quello che ormai era diventato il suo imperativo universale.
    Tenendo stretta nelle sue manine ossute il coltello da cucina consumato si accostò lentamente alla porta. Non era stata chiusa a chiave, il buco era nei pressi della serratura. Ma le pelli appese alle finestre gli avevano suggerito che potesse esserci qualcuno lì dentro. Doveva essere cauto.
    Appoggiò la mano destra, quella libera, sul legno e spinse lentamente. Lo stridio dei cardini fu leggero, ma tanto bastò a metterlo sul chi va là. Aveva aperto la porta sufficientemente per poter sbirciare all'interno. La luce filtrava dalle finestre e dallo spiraglio permettendogli di vedere all'interno con una visibilità discreta. Non sembrava esserci nessuno.
    Rinsaldando la stretta sull'arma spinse di nuovo la porta aprendola un pò di più, pronto a tutto. Non sentì alcun movimento giungere dall'interno.
    Finì di aprire la porta che ora era spalancata e riuscì a scorgere per bene l'interno.
    Era una sola stanza. In un angolo c'era un giaciglio vuoto e mal rifatto. Su una parete vi erano mobili semidistrutti i cui segni sembravano riportare delle lievi riparazioni. Un tavolo era già stato risistemato e ora occupava il centro della stanza. Qualcuno stava cercando di ricostruire la casa.
    Piombò all'interno frugando negli armadi, in ogni angolo, e cassetto in cerca di cibo. Non c'era nulla in giro, soprattutto non c'era cibo da nessuna parte. Che la persona se ne fosse andata, abbandonando ciò che stava tentando di ricostruire al suo destino? Non sarebbe stata la prima volta che questo accadeva. Si era imbattuto in molte abitazioni disabitate lungo il suo viaggio. Eppure il giaciglio aveva ancora le coperte e sul tavolo c'erano dei pezzi di legno intagliati per quel mobile rovesciato. Non fece in tempo a finire di esaminare la stanza che un rumore lo mise in allerta.
    Era un rumore di passi stanco, trascinato.
    Si rifugiò dietro la porta, il piccolo pugnale consunto stretto tra le mani.
    Un'ombra si stagliò sulla soglia. Poi una figura si fece avanti. Era molto meno imponente di quanto si fosse immaginato. Non doveva essere più alto di lui di molto, questo lo tranquillizzò, era sempre difficile avere la meglio su gente più grossa di lui. La figura era ricurva in avanti, portava sulla schiena una zaino e si appoggiava ad un bastone.
    Era un vecchio.
    Forse aveva vissuto lì da sempre, e la guerra gli aveva distrutto la sua unica casa.
    Forse le macchie di sangue sul muro sui muri e sul pavimento della casa erano appartenute alla sua famiglia e lui era l'unico superstite.
    Forse stava ricostruendo tutto quello che rimaneva della sua vita.
    Non si fermò a pensare ai motivi perché quel vecchio vivesse ancora in quel luogo misero, non si interrogò su cosa potesse spingere quella persona a vivere una vita del genere.
    Agì d'istinto.
    Scattò rapido e silenzioso dietro al vecchio, il pugnale balenò alla luce morente e rossastra del sole che scivolava sotto l'orizzonte. Fu un attimo.
    La lama consumata si appoggiò sul collo dell'uomo e si ritrasse macchiata di sangue. Un secondo dopo il vecchio era a terra. Si artigliò debolmente la gola nel vano tentativo di respirare ma i pochi movimenti che faceva lo rendevano ancora più patetico e non facevano che accelerare la sua fine ormai segnata.
    Lo osservò morire senza battere ciglio, senza respirare, trattenendo il fiato dalla paura che si rialzasse, stringendo con tutte le sue forza il manico del pugnale nella sua mano e continuando a spostare il peso da un piede all'altro.
    Lo guardò negli occhi fino alla fine, cercando di scorgere l'appassire della vita dentro di lui, vedendogli spegnersi per sempre e rassicurandosi sul fatto che quel vecchio non era più una minaccia.
    Gli tolse lo zaino e vi rovistò in cerca di cibo. Gli antenati erano stati benevoli.
    C'era della frutta e della carne essiccata, cibo in scatola e altro ancora. Doveva essere stata la sua scorta, forse l'aveva appena comprata o tirata fuori da un nascondiglio. Non si interrogò oltre sulla storia dell'uomo, certe volte era meglio non sapere nulla sulle persone che uccidevi, ti faceva dormire meglio.
    Divorò con foga la carne essiccata e mangiò una mela senza mai distogliere gli occhi dalla pozza di sangue che si allargava intorno al corpo dell'uomo. Sapeva che ormai era morto, ma aveva sempre il terrore che si potessero rialzare tutte le volte che gli toglieva la vita, come irati delle sue azioni così meschine e terribili.
    L'odore del sangue pervadeva l'aria mentre addentava la polpa succosa della mela. Un solo pensiero rimbalzava nella sua mente.
    Era incredibile come un corpo così minuto potesse contenere così tanto sangue.




    Il vento soffiava forte quella notte. Si intrecciava sui suoi capelli come al solito, agitandoli irrequietamente. Era tranquillizzante.
    Aveva avuto famiglia un tempo. Un padre, una madre, un fratello ed una sorella. Si ricordava ancora i loro nomi. Gyukudo, Naora, Kazuki e Myako. Un tempo erano persone, fatte di carne ed ossa, con sentimenti ed emozioni.
    Ora erano solo immagini sfocate nella sua memoria. Ricordi indistinti.
    Un brivido gli corse lungo la schiena al ricordo di quello che erano stati. Aveva appena avuto un incubo, per una delle poche volte che riusciva a dormire. Si era alzato ed era uscito.
    Era notte inoltrata e tra poco sarebbe giunta l'alba.
    Il giorno prima aveva completato il suo addestramento con il suo sensei Hanzo Kurosawa. Un ottimo maestro, poche parole e atteggiamento severo, sperò che in futuro ne avrebbe potuti incontrare altri della stessa pasta.
    Aveva festeggiato spendendo i pochi Ryo che gli erano rimasti mangiando ad una tavola calda chiaramente troppo costosa per lui, ma ne era valsa la pena. Lo stomaco era pieno ed era riuscito ad addormentarsi facilmente, una cosa che non gli succedeva da anni.
    Poi era arrivato l'incubo. Non era stata colpa sua, quel vecchio non sarebbe dovuto tornare quando c'era lui, o almeno avrebbe dovuto lasciare del cibo in casa così non sarebbe stato costretto ad ucciderlo.
    Si sfregò le mani, ferite dall'addestramento, sul volto.
    Non era stata colpa sua.
    Il vento soffiò forte sulla cima di uno degli edifici più alti di Suna. Gli scompigliò i capelli come un tempo amava fare suo padre e gli carezzò le guance, come era solita fare sua madre.
    Una lacrima scivolò sulla sua guancia, mentre la luce dell'alba cominciava a spuntare all'orizzonte, irradiando ogni cosa di un colore rosato.
    Non era stata colpa sua.


    Edited by Supaku - 10/1/2016, 11:39
     
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