Preludio all'Impero

IV° Evento del GDR di TAM

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    Ninpou: Chojuu Giga

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    Conseguenze Inaspettate



    Il campo di battaglia era ormai irriconoscibile. Il piccolo bosco era stato completamente spazzato via dal potentissimo pugno di Nidia Akimichi, un colpo la cui potenza era stata avvertita a chilometri di distanza. Persino a Iwagakura la terra aveva tremato, anche se solo tre persone ne sapevano il perché. Ma quando Nidia, Kisuke e Tony avevano abbandonato quel cratere che un tempo era stato una placida radura, nessuno era rimasto a verificare i danni e gli effetti collaterali di quel colpo.
    Si dice che il battito d'ali d'una farfalla a Kumo possa scatenare una tempesta di sabbia a Suna, e quello della Akimichi era stato certo ben più che un timido batter d'ali d'una farfalla.
    Parecchie centinaia di metri sottoterra infatti, in una cavità di roccia artificiale, un tempo perfettamente sigillata dalla pietra, una nuova brezza vitale soffiava attraverso le crepe nel terreno. I simboli dipinti sulle pareti, spezzati dalle crepe e semi-cancellati dalle macerie, smisero d'emanare il loro consueto bagliore, che per tanti anni aveva silenziosamente riempito quell'antro, manifestando l'effetto dei potentissimi Fuuinjutsu posti a protezione di quel carcere segreto.
    Perché di una prigione si trattava e, come tale, un prigioniero era racchiuso al suo interno. L'aria fresca della superficie sembrò risvegliarlo ad un torpore millenario, mentre si riempiva le narici di quel insolito profumo. Ricordava vagamente, come vecchie fotografie sbiadite, la superficie e le forme di vita che l'abitavano. Altri esseri umani, animali, piante. Ricordava il sole, i fiumi, i mari e le montagne. Persino lui si rendeva conto che, quelle misure eccezionali dovevano essere state ideate appositamente per lui ma quale atroce crimine potesse aver commesso per venir confinato laggiù, sepolto vivo nella roccia, non gli riusciva proprio di ricordarlo.
    Riscuotendosi dal suo torpore l'uomo provò le proprie gambe dopo tanto tempo. Prima un passo, incerto, malfermo, poi un'altro. E un altro, stavolta più sicuro e deciso. Distese le mani, muovendo quelle dita che per tanto tempo aveva tenuto chiuse nei suoi pugni serrati, tastando la parete di pietra, le sue crepe, fino a trovare una fenditura.
    «Lassù ci sono le nostre risposte...» pensò una voce, dentro di lui, mentre meccanicamente il corpo cominciava ad issarsi lungo la parete di roccia...


    Continua....
     
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    Un Nuovo Hokage



    «Hiruzen Senju, già per due volte hai gettato la vergogna sul Villaggio della Foglia e su tutto il Paese del Fuoco. A quanto pare sono stato troppo indulgente, nel lasciarti il tempo di scegliere un successore adeguato, dopo i fatti di Kusa.»
    La voce proveniva da uno schermo, collegato con numerosi cavi ad alcuni caschi, indossati da un gruppo di Shinobi del reparto Comunicazione di Konoha. Hiruzen Senju, Hokage di Konoha, se ne stava in piedi, davanti ad esso, a subire quello che a un tempo era un processo e una condanna ma, soprattutto, la sua ennesima umiliazione.
    «Come tuo signore e Daimyo, con effetto immediato, ti destituisco dalla tua carica di Hokage!» esclamò in tono irato e allo stesso tempo pomposo il Daimyo del Paese del Fuoco, dal gigantesco schermo. Alle spalle dell'Hokage, dal Consiglio della Foglia, non un solo brusio si levò in sua difesa.
    D'altra parte, nemmeno Hiruzen aveva osato sperarlo. Per ben due volte, come uno sciocco, si era lasciato controllare dai suoi nemici. Per ben due volte era stato solo un burattino impotente, i cui fili erano saldamente retti da Mukenin della peggior specie.
    «Signore, se permette...»
    «No! No, non ti permetterò più nulla! Ho lasciato il Villaggio, il bene più prezioso di questo Paese nelle tue mani, Hiruzen, e tu... TU!!» gridò il Daimyo, senza riuscire a dare conclusione alla frase per la rabbia, anche se non ce n'era alcun bisogno.
    «Signore, posso assicurarle che Uzumaki Ichigo non ripeterà i miei errori. Sarà un Hokag...»«NO! Ti ho detto di no! Basta, non voglio più ascoltarti, Hiruzen! Mi hai fatto fare la figura del debole con gli altri Daimyo! Persino il Raikage, l'ultimo arrivato, ispira più fiducia di te!» sbottò irato il Daimyo, interrompendolo di nuovo.
    «Non ascolterò più una singola parola che provenga dalla tua bocca! E non sceglierò l'Eremita che vuoi come Hokage! Ho già fatto la mia scelta, a riguardo...» disse poi, calmandosi un poco.
    «È ora di dare un segnale forte, agli altri Paesi. Una figura impeccabile, il simbolo della giustizia...» riprese il signore feudale, ora con tono esaltato.
    Un rumore di passi alle sue spalle e un brusio nel Consiglio fecero voltare l'Ex-Hokage.
    «Sono sicuro che conosci già l'ex-capo della polizia di Konoha, e il suo futuro Hokage...» annunciò la voce dallo schermo alle sue spalle.
    Un sorriso comparve sul volto del nuovo arrivato che si esibì in una riverenza quasi comica, nella sua teatralità.
    «Hayter Uchiha!!» concluse trionfante la voce.
    Si levò uno scroscio di applausi dal Consiglio e persino il Senju dovette ammettere che, tra tutti i possibili candidati, il Daimyo aveva certo scelto uno dei suoi elementi migliori.
    «Congratulazioni, Hayter.» disse secco Hiruzen. Nonostante tutto non gli riusciva di essere veramente contento per l'altro.
    «Grazieeeee... rispose questi, strascicando l'ultima lettera finché ogni altro suono non si spense nella sala.
    «Sono contento che tu la prenda così bene vecchio!» disse poi, strizzando l'occhio al Kage e affibbiandogli una decisa pacca sulla schiena.
    «Voglio promettervi una cosa, signori!» riprese poi, mentre tutti gli sguardi erano puntati su di lui. «Come nuovo Hokage, io, ehm... Hayter Uchiha, vi assicuro che... ci sarà da divertirsi!!»
     
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  3. "Il Principe Azzurro"
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    La neo Mizukage, Terumi Futtonshinji.
    Seconda Semifinale del Torneo d'Agosto, Kenji Bayushi vs Ennosuke Hyuuga



    Terumi balzò su dalla poltrona quando vide Ennosuke eseguire i sigilli per la Kirigakure no Jutsu. Inammissibile che uno Shinobi di Konohagakure potesse avere nel suo arsenale Ninjutsu tale tecnica, tralasciando il fatto che combinata al Byakugan si rivelava ancor più devastante rispetto all'accoppiata con l'Omicidio Silenzioso.
    "Non dovrebbe turbarti così assai, Terumi. Sai benissimo che Ennosuke era un Mukenin fino a poco tempo fa, è ovvio dunque che sia uno Shinobi fuori dagli schemi."
    La neo, o per i più pignoli temporanea Mizukage si limitò a lanciare un'occhiataccia a Danzou, ond'evitare di rispondere e dar così un pessimo spettacolo dinanzi alla corte dei Kage. Tuttavia lo stato d'ira era ben visibile sugli allineamenti del suo viso.
    "Arrivo subito."
    Fu l'unica cosa che riuscì a dire, cercando in qualche modo di scusarsi visto il modo in cui si stava allontanando dalla tribuna d'onore. Nessun Kage osò proferir parola. Il capo della foglia esibì un sorriso talmente largo e pieno di soddisfazione mentre che il Kokage, Kazekage ed il Raikage rimanevano in silenzio lanciandosi occhiate a vicenda, occhiate che celavano un misto di preoccupazione e timore per un futuro che pareva essere più in bilico che mai. Il Kaguya era il più preoccupato, visto che il precedente Hokage del Clan Senju, seppur oramai riconosciuto come il più debole capo villaggio della storia degli Shinobi, almeno era dall'animo benevolo. Gli occhi dei Kage tornarono poi sullo scontro e la Mizukage si ritirò verso la sua stanza. Quando arrivò dinanzi alla porta rimase per un'istante sorpresa nel vedere la porta spalancata. Noncurante del potenziale pericolo, la donna s'avviò verso la sua camera da letto.
    "So che sei qui"
    Disse a voce quasi strozzata, mentre che sentiva un Kunai a ridosso della spalla, che sempre più s'avvicinava alla sua pelle liscia e candida come la neve. Probabilmente a separare la punta dell'arma dal contatto con la pelle vi era un millimetro, se non addirittura meno.
    "Ti dispiace?"
    Rispose una voce maschile in pronta risposta mentre che le vesti della donna cadevano sul pavimento.
    "...No"
    Disse Terumi mentre Danzou dava un taglio alla bretella del suo reggiseno, lasciando la donna completamente nuda ed inerme, che senza alcuna vergogna si girò posando il suo delicato sedere sul letto.
    ...
    "Sono così confusa, Danzou".
    Disse Terumi nascondendosi tra le braccia muscolose dell'ex Kiriano ed oramai neo Shinobi di Konohagakure no Sato. Era stata proprio lei a firmare le carte necessarie per permettere all'uomo d'integrarsi a Konoha anziché a Kirigakure. Ci fosse stato il padre di Terumi, cioè il Mizukage oramai deposto per via delle sue condizioni ancora critiche, non avrebbe mai avuto modo di potersi prendere il coprifronte della foglia e probabilmente sarebbe marcito in una di quelle squallide prigioni per Shinobi vista la sua taglia elevatissima.
    "Confusa? Suppongo sia normale visto lo stato del tuo vecchio. Tuttavia sai benissimo che adesso lo scettro è tuo, quindi non mostrarti mai debole e sopratutto... fidati di me.
    La donna si strinse al petto dell'uomo.
    "So benissimo che mi stai usando."
    L'ex Mukenin abbozzò un sorriso divertito.
    "Non più di tanto..."
    La donna fece spallucce, non le importava nulla. L'importante era che adesso stava vicino al suo amato, vicino a colui che l'aveva privata dell'innocenza, vicino al suo primo amore. Non contava null'altro, niente e nessuno era più importante di lui ed avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui... qualsiasi... come non ricordare quando due anni fa deviò la propria squadra ANBU in modo totalmente sconsiderato pur di permettere a Danzou di fuggire indisturbato? Come non ricordare come proprio lei in persona si era staccata dalla sua squadra pur di cercare di persuadere il neo Shinobi di Konoha a rimanere fra le file dei regolari? Aveva persino utilizzato il Futton nel tentativo di fermarlo, rischiando così d'ucciderlo. Si ricordava bene del momento in cui diede vita ad un Rasengan facendosi poi volutamente afferrare il polso: mossa poco saggia di Danzou che per poco non si ritrovò senza la mano in seguito al rilascio del Futton dai pori della caposquadra ANBU. Dopo quella mossa però Terumi si spezzò, rimanendo debole ed indifesa, finendo con il concedersi totalmente all'uomo che temeva di vedere per l'ultima volta. Non avrebbe mai dimenticato quel giorno, ma nemmeno le loro uscite dove puntualmente pagava lei: che fosse un bicchier d'acqua oppure una cena al ristorante. D'altronde Danzou era fatto così, lui il denaro lo usava in tutt'altro modo. Di fronte a tali pensieri apparve un sorriso sul volto della donna, che ne scaturò anche uno, seppur breve, sul volto di Danzou che la teneva soddisfatto tra le sue braccia. Terumi era l'unica donna della quale non si scocciava mai, a differenza di tutte le altre che uccideva a fine rapporto, in modo da potersi dichiarare senza dubbio alcuno l'ultimo uomo delle sue prede. Danzou lasciò sfilare una mano lungo i capelli lisci e morbidi della Mizukage, che sussultò per poi voltare lo sguardo verso l'oramai ex Mukenin, con gli occhi in lacrime.
    "Mi vuoi sposare, Danzou?"

     
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    Amicizie Pericolose



    Dodici giorni dopo la Battaglia dei Dieci di Suna, nelle Terre di Nessuno...

    La strada che conduceva al nascondiglio della Regina si inerpicava rigidamente lungo il costone roccioso di una formazione montuosa, sparendo più volte alla vista mano a mano che si procedeva lungo la via.
    Sono ricoperto di fango e sterco” pensò tetramente Anzhai di Porta di Pietra. La notte precedente aveva piovuto e la strada era ridotta ad un ammasso di fango schiumoso, tanto che era stato costretto a scendere da cavallo e a procedere a piedi inzuppandosi i sandali e le brache fin oltre la caviglia. “che giornata di merda.
    Lanciò uno sguardo carico di stizza alle sue spalle, attento a non farsi vedere. Dietro di lui, il Numero Nove arrancava nella malta trascinando il suo ronzino e bestemmiando gli dèi del sottosuolo.
    Shinobi. Lui odiava gli Shinobi. Li odiava, perché gli avevano portato via tutto.
    Quando la guerra era arrivata a Porta di Pietra, una piccola cittadina a est di Iwagakure, si era portata via i suoi genitori e quasi tutti gli uomini del suo villaggio. Nei mesi successivi era sopravvissuto nascondendosi nei boschi, evitando le truppe di qualsiasi fazione e partecipando al macabro banchetto che prendeva luogo al termine di ogni battaglia, razziando tutto ciò che poteva dai cadaveri dei caduti. Una moneta, una crosta di pane indurita, un lembo di stoffa che potesse proteggerlo dal freddo. Quando arrivarono gli uomini in grigio e li portarono via, lui e gli altri bambini, gliene fu addirittura grato. Ma non ci volle molto perché imparasse quanto si fosse sbagliato.
    Presto scoprì il significato delle parole “schiavo di piacere” e il Numero Nove divenne una costante di tutta la sua vita. Un giorno venne da lui, lo strappò dal lerciume del bordello dove viveva.
    “Tu sei mio. Mi appartieni. Ho deciso io che avresti passato gli ultimi tre anni a farti fottere in questa topaia. Ora però ho deciso che la tua vita debba cambiare: da questo momento diventerai il mio assistente personale. Raduna le tue cose e leva il culo da qui, prima che cambi idea.” Gli aveva detto con quella sua voce roca. Sembrava il raschiare di qualcosa di pesante contro il ferro, e Anzhai non lo avrebbe mai dimenticato. Accettò. Imparò a leggere, a scrivere e a far di conto, ma non smise mai di odiare lui e tutti quelli che lo avevano seviziato in quei lunghi anni. Venne iniziato alle arti Ninja, e divenne egli stesso ciò che aveva disprezzato da sempre: uno Shinobi. Con il tempo la sua posizione divenne sempre più solida fra le schiere dei più ristretti collaboratori del Numero Nove e anche i suoi compiti si fecero via via più delicati. Imparò cose, intrecciò rapporti e ordinò di compiere atti che spesso, di notte, tornavano a tormentarlo. Un giorno, però, le cose sarebbero cambiate.
    Anzhai si schiarì la voce. «Siamo arrivati, mio signore.»
    «Finalmente. Sai cosa fare.»
    L’irta stradina coperta di fango terminava in una piccola depressione all’interno della montagna, ma là dove ci si sarebbe aspettati un’entrata o un qualche tipo di passaggio li aspettava soltanto la nuda pietra. Anzhai tuttavia non si scompose, ma afferrò le redini di entrambi i cavalli e aspettò che Shimura facesse la sua magia. Appoggiandosi al suo inseparabile bastone di legno scuro, l’uomo pose la mano sulla roccia e chiuse gli occhi, finché dalle sue dita non partì una scarica di energia azzurrina che rivelò un intricato schema di simboli e rune che decoravano l’intera parete. Shimura infuse altro chakra e alcuni simboli cambiarono di posto, altri semplicemente evaporarono in uno sbuffo azzurrino finché la porta, finalmente, si aprì. I due varcarono la soglia di un ampio e scuro corridoio che si gettava direttamente nelle fauci della montagna. Dopo qualche passo, due lunghe file di torce si accesero all’unisono illuminando loro la via. Il Numero Nove proseguì diritto, mentre Anzhai prese una via laterale che portava ad una piccola stalla in cui legò i due animali. Poi tornò all’esterno del nascondiglio lasciando che il pesante portone di pietra gli si richiudesse alle spalle. “Non far passare nessuno.” erano questi, gli ordini.
    Le ore parvero confondersi mentre montava la sua lunga guardia sotto il sole. Fece come sempre aveva fatto per tutta la vita: eseguì gli ordini e lì rimase in attesa del suo signore. Non seppe dire quanto tempo era passato quando udì una voce alle sue spalle.
    «Carino qui, non trovi?»
    Anzhai si voltò di scatto, portando istintivamente la mano all’elsa della spada dietro la schiena. Solo che la spada non c’era.
    «Cercavi questa?» chiese l’uomo, con un risolino divertito. Aveva una risata stridula, cattiva, e lo osservava con un ampio sorriso che non prometteva niente di buono. Tra le mani reggeva la sua lunga spada bianca e ci giocherellava come fosse una spada di legno da addestramento. Era un uomo alto, capelli scuri, niente che lo facesse uscire dall’ordinario. Anzhai riconobbe però il suo volto da alcuni documenti che gli era capitato di maneggiare di recente, tra le scartoffie di Shimura.
    «Io ti conosco!» ringhiò, spaventato «Tu sei il nuovo Hokage, Hay--»
    Prima ancora che potesse finire la frase, Anzhai si ritrovò sbattuto contro la parete e sollevato da terra, con una mano dell’uomo che gli artigliava la gola.
    «Oh, così mi conosci…» sussurrò l’uomo. Rise ancora, e in quella risatina c’era qualcosa che gli faceva accapponare la pelle. «Preferiamo però che il nostro nome non venga sbandierato ai quattro venti, in queste terre. Mi hai capito bene?»
    L’uomo strinse ancora la morsa intorno al collo di Anzhai, che cominciò a tossire per la mancanza di ossigeno. Prese anche a scalciare i piedi nel vuoto, ma inutilmente. Poi, rapido come lo aveva afferrato, l’Uchiha mollò la presa lasciandolo crollare a terra boccheggiante.
    L’uomo riprese a parlare con quel suo tono suadente e mellifluo, che per Anzhai lo faceva somigliare piuttosto ad un serpente in attesa di sferrare il colpo mortale. «No, direi che non vale la pena ucciderti… Sei un ragazzo fortunato. Guardami…» Il ragazzo tenne basso lo sguardo, ancora intento a cercare di recuperare il fiato perduto. «Ho detto GUARDAMI!»
    Anzhai avvertì quasi una forza che lo costringeva a sollevare la testa e così fece, perdendosi negli occhi di quell’uomo diventati due pozzi di fuoco e buio. Pochi istanti dopo, avvertì il duro bacio della pietra sulla guancia e cadde nell’incoscienza.
    Quando si svegliò, si accorse che la pesante porta di pietra era stata completamente divelta. Il suo assalitore non doveva essersi disturbato a comprenderne il funzionamento: l’aveva semplicemente distrutta. Provò a rialzarsi, ma si accorse di essere incredibilmente debole e crollò di nuovo a terra. Si trascinò con fatica fino all’imboccatura della caverna, dove si aggrappò ad una parete e barcollò in stato confusionale da un corridoio all’altro del dedalo sotterraneo. Trovò il Numero Nove accasciato contro una parete, privo di sensi e un rivolo di sangue che gli colava dalla bocca. Si avvicinò al suo padrone e ne tastò il polso: era regolare, respirava ancora. Per un attimo gli balenò in mente di approfittare dell’occasione e ucciderlo. Invece si rimise in piedi con un enorme sforzo e si trascinò ancora più in profondità, alla ricerca dell’Uchiha e della Regina. Li trovò all’imboccatura di una stanza spoglia – la porta era stata abbattuta con la forza – e vide la Regina accasciata a terra, sconfitta ma cosciente. Non lontano da lei c’era un altro uomo, lo conosceva, Danzou Natsuhi, che guardava il loro assalitore con occhi carichi d’astio mentre cercava di tamponarsi il naso grondante sangue. Nessuno sembrava fare caso ad Anzhai, che rimase seminascosto nelle retrovie.
    «Sei qui per ammazzarci, cane bastardo?» gracchiò Nidia Akimichi, il trucco alterato e i capelli insolitamente fuori posto. Sembrava che un gigante le avesse appena tirato un pugno sul muso. «Devo ammetterlo, però: non pensavo che l’Hokage in persona si sarebbe scomodato per mandarci all’altro mondo…»
    L’uomo che torreggiava su tutti loro rise di nuovo con quella sua risata stridente, e Anzhai sentì di odiarlo. Rise piano, e poi sempre più forte per diversi secondi. Sembrava quasi che non riuscisse a stare fermo tanto che era eccitato per quella situazione che pareva trovasse così divertente. Poi, quando i sussulti si furono calmati e l’inquietante sorriso tornò a campeggiare sul suo volto, l’uomo allargò le braccia come se volesse abbracciarli tutti.
    «Non sono qui per uccidervi, ma perché ho bisogno di voi e voi di me. Solo che voi non lo sapete ancora.» Il ghigno si allargò ancora, quasi fino a deformargli i tratti del viso in una grottesca maschera notturna. «Ma a questo porremo presto rimedio. Sento che questo sarà l’inizio di un magnifico rapporto, amici miei.»
     
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    Ensui Nara



    Tac. Tac. Tac. Il ritmico ticchettio del bastone sul pavimento di legno accompagnava il lento incedere di Ensui Nara, avvolto dalla luce tenue delle lampade del palazzo dell’Hokage. L’appoggiarsi sicuro del piede sinistro, il tonfo sordo del bastone e il lento trascinarsi della gamba destra, questo era il ritmo in cui erano scanditi tutti i suoi giorni ormai da moltissimo tempo. Piede, bastone, corpo che ricade. E via di nuovo da capo.
    Aveva attraversato quei corridoi per innumerevoli volte, servito più Hokage di chiunque altro nel Villaggio e vissuto più guerre di quante non ne osasse ricordare. Sempre più spesso, quando sentiva le palpebre farsi pesanti e si concedeva un minuto di riposo, rivedeva davanti agli occhi quelle immagini. Vedeva sé stesso combattere, mentire e uccidere per il suo paese. Ma era passato tanto tempo. Quelle mani dure e forti si erano fatte deboli e nodose, a malapena in grado di reggere un pugnale; la pelle era macchiata e molle e quei pochi capelli che gli rimanevano avevano abbandonato già da anni il nero di un tempo, in favore di quel bianco pallido proprio di chi si avvicina al tramonto della vita. Ensui Nara era un uomo che nella vita aveva amato troppo, lottato troppo e perduto troppo. Per la Foglia avevano sacrificato ogni cosa, lui e i suoi compagni, e avevano sbagliato tutto. Ensui era l’ultimo, l’unico di un gruppo di visi sorridenti racchiusi in una foto di tanti anni prima. Tutto ciò che gli restava ora era servire, ancora una volta.
    “Perché sono ancora vivo?” si chiedeva continuamente. “Uomini molto migliori di me sono morti, mentre io resto ancora qui ad appestare la terra.” Continuava ad essergli riservato un posto nel consiglio ristretto, ma il più delle volte lo trattavano più come una mummia che come uomo d’esperienza quale lui era; e ora un altro Kage se n’era andato. Dopo il fallimento del Settimo, ora il regno dell'Ottavo era alle porte. Un bravo ragazzo, Hayter Uchiha. Lo aveva guardato crescere ed aveva visto l’uomo serio e buono di cuore che era diventato, attento e ligio al dovere. Bussò alla porta ed entrò zoppicando.
    I suoi occhi stanchi ci misero un po’ a mettere a fuoco tutto, ma gli sembrava che fosse rimasto tutto praticamente intatto dai tempi in cui Hiruzen occupava la sala. Poco era cambiato, tranne l’uomo che occupava la scrivania. Stava adagiato lungo la poltrona, le gambe incrociate sopra la scrivania e lo sguardo basso, tutto intento a pulirsi le unghie con un kunai. Ensui rimase di stucco, ma attese rispettosamente che il suo Kage gli desse il permesso di avvicinarsi.
    «Ahem» lo incoraggiò, dopo qualche secondo.
    L’altro alzò finalmente lo sguardo. «Sì…?»
    Strascicò molto la parola, come a chiedergli chi diavolo fosse lui e cosa ci facesse lì. Lo squadrò con un’occhiata che lo ferì: sembrava che in lui non vedesse altro che un patetico vecchio e non l’uomo a cui tante volte aveva chiesto consiglio in passato.
    «Ensui Nara, signore. Per servirvi.» Ensui fece per inchinarsi, con la bocca contratta per lo sforzo e il dolore alla gamba.
    «Ensui Nara, ma certo!» L'Ottavo Hokage balzò in piedi sulla scrivania e in un istante fu di fronte a lui, vicinissimo. Lo salutò con modi quasi burleschi, battendogli una mano sulla spalla più volte. «Non c’è bisogno che ti inchini, vecchio mio! Ensui Nara…! Ne abbiamo passate tante insieme, eh? Ah, i ricordi, che brutta faccenda, non me ne parlare, lo so, cosa vuoi farci…» L’Hokage parlava molto veloce e gesticolava ampiamente, quasi non riuscisse a restarsene fermo, e non la smetteva di guardarlo con quel sorriso che non aveva mai visto sui tratti solitamente composti ed educati di Hayter Uchiha. Ensui era confuso. «Dunque!» Hayter cominciò a trotterellare per la stanza, facendo dondolare il kunai avanti e indietro come se fosse un pendolino. «Cosa posso fare per il mio caro, vecchio Ensui?»
    Ensui si schiarì di nuovo la voce, incerto. «Ecco, signore… sono venuto qui per parlarvi di ciò che sta accadendo nei Paesi Minori. Credo che…»
    «…credo che la situazione sia più grave di quello che appaia. Dovremmo fare ricerche più approfondite e valutare un intervento prima che la situazione peggiori ulteriormente!» gli fece eco Hayter, prima ancora che Ensui avesse pronunciato quelle parole. Notò che aveva lo Sharingan attivato. L’Hokage scoppiò in una risata fragorosa, una risata stridula e gracchiante che Ensui non ricordava appartenere all’Hayter che aveva sempre conosciuto. «Niente male, eh?» continuò l'Ottavo, saltellando compiaciuto da un piede all’altro. «Eh dai, Ensui, cos’è quella faccia da funerale?» lo prese sottobraccio con aria complice. «Sembri proprio il mio caro fratello: un tipo strano, il mio fratellino. Ho sempre pensato che avesse qualche rotella fuori posto, e…»
    «Perdonatemi, ma non mi pare che abbiate mai avuto un fratello.»
    L’Hokage si bloccò un istante, con le labbra ferme a metà di una parola. «No. Certo che no. Niente fratelli, niente di niente!»
    «Signore…»
    Hayter lo interruppe di nuovo. «Tu vuoi parlarmi di quei poveri Paesi Minori, non è così?»
    «Sì, signore, vede…»
    «Dimmi, Ensui, da quanto tempo servi questa onorata nazione?»
    «Da più tempo di chiunque altro, signore.» Ensui gonfiò leggermente il petto, mentre lo diceva.
    «E’ esatto, ed è proprio qui che volevo arrivare…» L’Hokage lo prese di nuovo sottobraccio, indirizzandolo lentamente verso la porta. «Come tutti sappiamo, tu per primo, ormai non sei più tanto giovane… credo che sia giunto il momento che tu ti prenda un attimo per, vediamo… riflettere sulla tua vita e rivedere le tue priorità, sì! Che ne dici di una piccola vacanza, eh?» Aprì la porta e lo spinse fuori in malo modo.
    «Ora levati dai piedi e lasciami fare il mio lavoro, stupido vecchio.»
    Ensui inciampò nel proprio bastone e mentre la porta si richiudeva alle sue spalle franò rovinosamente a terra. Il corridoio era deserto, non c’era nessuno ad aiutarlo. Era rimasto l’ultimo, l’unico. Un volto sorridente su una vecchia fotografia. Afferrò lentamente il bastone e si rialzò con fatica. Riprese a camminare quasi con tedio, accompagnato soltanto dall’onnipresente tac, tac di quella vecchia asta di legno.
    “Perché sono ancora vivo?”

    Edited by Masterzaga - 1/6/2013, 10:04
     
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    Conseguenze Inaspettate II



    Il vento ululava forte fuori dalla caverna in cui si era riparato, ma nonostante tutto le folate gelide lo raggiungevano lo stesso. Sarebbe stato più caldo scendendo in profondità nell'antro buio, ma ne aveva troppa paura. No, non paura, ribrezzo. Voleva vedere la luce, era stanco del buio. Ma l'oscurità continuava a braccarlo ovunque andava, con sensazioni, odori e sapori fuori contesto. Era la mente che gli riportava quei rari quanto inutili frammenti di memoria. Scosse la testa, affondandola poi tra le gambe rannicchiate. “Cosa è successo?” si chiese ormai prossimo alle lacrime. “Perché sono qui?” Il viaggio fino a quella caverna nelle terre di nessuno era stato tormento: non sapeva neanche dove stesse andando, l'unica cosa che capiva era la necessità di muoversi, di camminare, di vivere. L'immobilità era stata sua compagna per un lungo tempo, vivo ma morto, morto, ma vivo.
    Ora però era tornato nel mondo, senza saperne nulla. “Chi sono?” Tra le mille domande che rimbombavano nella testa, come il vento nella caverna, questa era quella che gli dava più pena. Lo riempiva di rabbia e frustrazione, di impotenza davanti a quel vuoto che era la sua mente. “Le risposte. Quassù ci sono le risposte.” Ogni volta che tentava di ricordare, però, vedeva solo buio, come se in quella caverna ci fosse nato, e lì fosse cresciuto. A volte sognava, ma quei sogni erano confusi, imperscrutabili, vividi come la luce del sole ma altrettanto accecanti. Quando si risvegliava restavano solo il dolore e lo stordimento, insieme al metallico sapore del sangue in bocca. A volte il sapore era reale, perché stringeva i denti tanto forte da farsi sanguinare le gengive.
    Alzò la testa e tentò di nuovo di richiamare qualche ricordo. Solo qualche frammento in più, un indizio. Sarebbe bastato. Rimase diverso tempo ad ascoltare il vento e la pioggia che si abbattevano fuori, come spesso accadeva alla fine si ritrovò a fissare un punto nel vuoto, il pensiero annullato, la mente intorbidita. Non esisteva più niente, neanche il suono del vento, risucchiato in un pozzo senza fondo, senza possibilità di fermare la caduta. Si scosse con furia tornando a ficcare la testa fra le gambe, i muscoli tesi allo spasimo, ma alla fine si addormentò così come si trovava.
    Quando, parecchie ore più tardi, si risvegliò, non si trovava più con la testa fra le gambe ma sdraiato a terra, scosso da violente convulsioni. Non era la prima volta che accadeva. Diverse volte durante il viaggio aveva avuto quel tipo di attacco. La prima volta si trovava sul dorso di un cavallo che aveva rubato insieme alle vesti. Era caduto a terra, perdendo l'unico mezzo di trasporto che aveva. Era successo poi molte altre volte, nei momenti più inaspettati. In quei casi perdeva l'uso del suo corpo, i muscoli si contraevano e si distendevano senza una ragione provocando quei tremiti sconvolgenti. Durò solo un paio di minuti. Gli attacchi si facevano sempre meno frequenti e meno violenti. Probabilmente era il suo corpo che si liberava delle conseguenze della prigionia. Si rialzò ansante, momentaneamente privo di forze. Prese fiato. “Sapore di sangue.” Sputò a terra, ma la saliva era pulita. Era solo la sua immaginazione.
    Si concesse un po' di tempo prima di rimettersi in cammino. La pioggia e il vento erano cessati, la tempesta passata. Ma il terreno era impregnato d'acqua, sarebbe stata quindi una marcia faticosa. Sentiva i morsi della fame e sete. Presto avrebbe dovuto trovare qualcosa da mettere sotto ai denti ma, al momento, lui doveva muoversi. Uscì all'aria aperta e con enorme sollievo rimase fermo a godersi il sole che faceva capolino tra le nuvole. Adorava la sensazione dell'aria e del sole sulla pelle. Con rinnovata fiducia si volse verso Nord: la valle incastonata tra due alte e impenetrabili catene montuose proseguiva in quella direzione ancora per parecchie miglia. Non sapeva cosa ci fosse una volta arrivato in fondo, ma arrivato a quel punto avrebbe deciso. “Le risposte, qui ci sono le risposte.” Si disse per l'ennesima volta. “Solo un altro po'.”
    Si rimise in cammino.

    Grazie a Red per il post :)
     
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    Nessuna nuova, buona nuova



    La tremolante fiamma delle candele gettava una luce mobile nella stanza nascosta nel cuore della montagna. Al centro di quella moltitudine, unica decorazione di quella sala altrimenti spoglia, un uomo sedeva in meditazione. Usava spesso ritirarsi in solitudine per riflettere, di recente più di quanto mai avesse fatto in passato poiché un pesante fardello era ricaduto sulle sue spalle. Si era sempre considerato un buon soldato, un seguace fedele, ma mai un capo. Il suo leader era lontano e l’ultimo di loro rimasto in linea di successione era proprio lui. Molti saggi dicevano che proprio chi non bramava il comando era il più adatto ad accettarne le conseguenze, eppure non poteva fare a meno di pensare che se soltanto le cose fossero state diverse sarebbe stato meglio per tutti quanti.
    Sospirò; non poteva permettersi di lasciarsi andare a quei pensieri. Come diceva sempre lui, c’era sempre un lavoro da fare e non avrebbe lasciato che la sua opera restasse incompiuta, finché non avesse trovato un modo per liberarlo dalle segrete nelle quali era rinchiuso. Ricordò con tristezza le ultime parole che gli aveva rivolto: "Conta su di me". E avrebbe mantenuto fede alla sua promessa.
    Quel giorno aspettava un messaggio. Piegò leggermente un angolo della bocca quando udì il distintivo puf di chi si era appena materializzato alle sue spalle. Buttò fuori tutta l’aria che gli era rimasta nei polmoni, si alzò in piedi e sorrise benevolo al nuovo arrivato.
    «Ben arrivato» disse Asuma Sakurazukamori.
    Davanti a lui, parecchi centimetri più in basso, scodinzolava impaziente un cagnetto completamente nero e dal pelo parecchio lungo, che gli oscurava gli occhi per la maggior parte del tempo. Sembrava un piccolo pezzo di carbone con la coda, pensò Asuma. Tra i denti portava un rotolo di modeste dimensioni, racchiuso da un filo di spago verde che penzolava inerte con un po’ di bava appiccicata sopra.
    Asuma liberò il cane della pergamena. «Un nuovo rapporto da Saku, immagino.»
    «Cos’altro potrebbe essere?» borbottò l’animale. «Non vedo altro motivo per cui dovrei voler venire in questo buco per i vermi.» Asuma cominciò a srotolare lentamente il messaggio, l’altro dilatò le narici. «C’è puzza di topi morti, qui.»
    «Vedo che qualcuno si è svegliato con il piede giusto, questa mattina.»
    «Non cercare di fare lo spiritoso con me, Asuma Sakurazukamori! Ho il doppio dei tuoi anni e potrei farti fuori ad occhi chiusi, qui ed ora!»
    Asuma ridacchiò. «Sì, certo…»
    «Attento a come parli, Sakurazukamori! Proprio non capisco cosa passi per la testa a Saku. Rischiare di mettersi nei guai per una banda di criminali come voi altri… sempre a tramare di nascosto e a nascondersi come talpe!» Il piccolo cane cominciò a sbuffare e ad agitarsi, con il ciuffo di pelo che dondolava in qua e in là lasciando trasparire per brevi istanti due pupille chiarissime, rapide e guizzanti. «Ah! Verrà un giorno in cui vi porteranno tutti quanti alla forca, caro mio, e quel giorno io sarò lì ad--»
    «Ci vediamo, Haru» lo interruppe Asuma. «Porta i miei saluti a Saku da parte mia. Saremmo persi senza di lui. Ah, e cerca di essere un pochino meno permaloso se riesci, ok?»
    «Permaloso? CHI?»
    Il cane ninja cominciò a schiumare di rabbia, vomitando un’altra serie di imprecazioni addosso ad Asuma che, sempre con il sorriso a mezze labbra, impostò una mano ed eseguì la Tecnica del Richiamo Inversa per rimandare l’animale da dov’era venuto. Per rimandarlo a Konoha.
    Il Fiore del Deserto tornò a sedersi al centro dell’intricata trama di candele, rileggendo il breve messaggio lasciatogli da Saku Inuzuka.
    “Sembra esserci qualcosa di strano nel nuovo Hokage. Nessuno dei suoi cari riesce più ad avvicinarlo, nessuno sembra riconoscerlo. Qualcosa non va.”
    Mentre osservava la pergamena prendere fuoco dopo averla esposta alla fiamma di una delle candele, Asuma si fece pensieroso. Era un ricordo insignificante, eppure continuava ad insinuarsi nella sua testa come un tarlo malevolo.
     
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    Nuvole e Sangue



    Il campo di addestramento era parecchio affollato, quel giorno. Da quando Motoi aveva dato il via al reclutamento di massa in vista dell’attacco imminente, parecchi ragazzini e disperati delle Terre di Nessuno erano accorsi intorno al rudere del palazzo che era diventato il loro quartier generale. Erano perlopiù ragazzotti di belle speranze sfuggiti alle fatiche della vita nella vecchia Iwa e Mukenin di basso rango, in cerca di un lavoro come un altro per sbarcare il lunario. Erano proprio il genere di truppa di infimo livello che Motoi cercava, poco più che un diversivo per mandare in confusione i Grandi Villaggi mentre loro avrebbero completato la nuova forgia della Lancia. Non erano tutte cose che avrebbe dovuto sapere, ma Asuma era un buon ascoltatore ed era decisamente bravo nel passare inosservato.
    Se non avesse saputo che erano tutti criminali, lì in mezzo, sembrava quasi di assistere ad una sessione di allenamento di una vera e propria accademia. Alcuni allenamenti erano brutali, ma supponeva che in fondo ci si dovesse fare l’abitudine. Poggiò lo sguardo su due giovani che si scambiavano qualche colpo nelle arti marziali. Uno era decisamente più grosso e prestante dell’altro, notò Asuma, ed ogni attacco che portava a termine, anche se parato, costringeva sulla difensiva il suo avversario. L’altro però era sfuggente anche se insufficientemente allenato e in qualche modo riusciva sempre ad evitare i colpi più pericolosi. Istintivamente Asuma sentì di parteggiare per il secondo. Anche scene come quella erano parte della grandezza di Motoi ed era il motivo per cui Nuvola Nera non doveva fallire. A dispetto dei metodi, la loro causa era giusta e la Tigre di Kumo sarebbe stata una guida giusta per la sua gente. Motoi lo aveva accolto nella sua cerchia e il Fiore del Deserto sentiva di dovergli tutta la sua fedeltà: alla causa, alla sua persona. Motoi non lo avrebbe mai abbandonato. Non sarebbe stato un altro Tahaku.
    Con il passare dei secondi il ragazzo più esile dei due era stato spinto sempre più indietro, schiacciato contro il limite circolare dell’arena tracciato a terra con una polvere rossa. Sembrava in palese difficoltà, ma l’occhio attento di Asuma notò che anche l’altro cominciava ad accusare la stanchezza. Tutti quei colpi andati a vuoto ne avevano fiaccato la convinzione e i pugni arrivavano più lenti e con meno frequenza di prima. Anche il gracilino doveva essersene accorto, perché qualcosa balenò nei suoi occhi un attimo prima che afferrasse il braccio teso del suo avversario e con un’abile torsione lo gettasse oltre le sue spalle, mandando il ragazzone tra la polvere oltre la sottile linea rossa. Asuma sorrise e con lui il piccolo pubblico che aveva assistito allo scontro più da vicino. Il vincitore tese la mano allo sconfitto in un moto di inattesa sportività, ma quando questi l’afferrò per rimettersi in piedi lo smilzo gli scaricò un pugno a tradimento in piena mascella. L’altro ragazzo accusò il colpo e si accasciò al suolo, dove rimase per un po’ senza muoversi. Il più mingherlino dei due gli sputò addosso e se ne andò con un sorriso sgradevole stampato in faccia.
    Le urla di un uomo distolsero Asuma dal suo pigro osservare. Quel grasso idiota di Butsu stava gridando contro un ragazzo che era poco più di un bambino. Quasi senza alcun preavviso Butsu lo spinse a terra e cominciò a prenderlo a calci, ancora e ancora, finché del giovane non rimasero che una poltiglia insanguinata e carne tumefatta. Asuma non fece assolutamente niente. Gli dispiaceva per quel ragazzo, in un certo qual modo, ma bisognava essere realisti: non erano affari suoi.
    Quando di lì a poco spuntò Reena, la figlia di Motoi, l’atteggiamento di Butsu si fece a un tratto lezioso, quasi servile. Tutti sapevano che il porco dei Nara aveva un debole per lei, così come era altrettanto chiaro che avrebbe avuto tante possibilità di infilarsi tra le sue cosce quante ne aveva Asuma di sollevare il suo grasso culone con una mano sola. Reena disse qualcosa e se ne andò, ordinando ad un altro ragazzo di scavare una buca per quello che era appena morto e lasciandosi dietro un Butsu dall’aria mortificata.
    «Povero, dolce Butsu…» disse una voce sgradevole alle sue spalle.
    Non aveva bisogno di voltarsi per sapere a chi apparteneva.
    «Jima.»
    L’odioso comandante delle spie di Nuvola Nera gli saltellò davanti come un grottesco guitto, facendo tintinnare la montagna di metallo che si era piantato in tutta la faccia.
    «Credo che stanotte penserò un poco anche a lui quando Reena mi succhierà l’uccello» lo canzonò, malmenandosi oscenamente il membro attraverso i pantaloni.
    «Mi dai il voltastomaco. Levati dai piedi, malato del cazzo.»
    «Oh sì, sono pazzo, ma lo sappiamo tutti e due perché ti sto così antipatico, sì?» la sua orrenda risata gli dava davvero sui nervi, pensò Asuma. «Il nostro Fiorellino è triste perché vorrebbe essere lui il capo delle spie… ma il buon Motoi ha dato a Dreek questo compito, che sono io! Sì!»
    Dreek Jima rise ancora, piegandosi in un goffo inchino per un pubblico inesistente.
    «Aye, lo voglio io quel posto, Jima, e faresti meglio a guardarti le spalle.»
    Dreek gli si avvicinò con uno scatto che colse Asuma di sorpresa, fermandosi a pochi centimetri dalla sua faccia. «Tu provaci. Soltanto,
    provaci.»
    Per un istante, il Fiore del Deserto dovette ammettere di avere paura. Dreek rimase a guardarlo per un paio di secondi, come a voler saggiare la sua reazione, poi si voltò e si allontanò con quella sua andatura dondolante. Dopo una decina di passi, si girò ancora.
    «Ah, e non preoccuparti, Fiorellino: anche se dovessi riuscire ad uccidermi, tornerei indietro a prendermi la tua testa! KABOOM!» un rapido movimento del braccio e Dreek fece saltare in aria un poveretto la cui unica colpa era passare di lì per caso.
    Jima rise come un matto, scavalcando il cadavere fumante e lasciando Asuma a sudare freddo. Per molte notti, quando ripensava a quel corpo, la testa mancante era la sua.
     
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    Ensui Nara

    Capitolo II



    «E levati, vecchio maledetto».
    Un brusco spintone e l’uomo lo superò quasi con tedio. Ensui annaspò barcollando fino al lato della strada, dove riuscì ad appoggiarsi alla parete di un negozio di alimentari. Riprese fiato, aspettando che il dolore alla gamba gli attraversasse la spina dorsale e poi penosamente scemasse. C’erano giorni in cui quasi sperava di averla persa, quella guerra, e di aver invece conservato intatta la sua gamba. Oggi era uno di quelli.
    Tac, tac, tac, ricominciò a zoppicare per la via affollata. Ad ogni piccolo urto che riceveva la gamba lanciava lampi di protesta, costringendolo ad incurvarsi sempre di più e ad aggrapparsi alla disperata al pomello del bastone, pregando di non cadere lì in mezzo a tutti quanti. Piede, bastone, corpo che ricade. Questa era l’allegra giostra della sua esistenza. “Accorrete, dannati sciocchi: venite a vedere lo storpio, troppo vecchio e debole per essere ancora considerato un Ninja.”
    Ora che ci pensava, l’uomo che lo aveva spinto contro il muro aveva tutta l’aria di essere uno Shinobi. Strano, rifletté, perché se c’era una cosa di cui Ensui si era sempre vantato era saper riconoscere ciascun Ninja del suo Villaggio, dai più alti ranghi fino al più giovane dei Genin che aveva appena ricevuto il suo coprifronte. Da quando era stato messo da parte per le missioni operative, Ensui aveva trovato conforto nell’osservare e nel raddrizzare dietro le quinte ogni giovane pianta che germogliava a Konoha. Quell’uomo, però, non gli pareva di averlo mai visto.
    Zampettò avanti di un altro centinaio di metri, ben attento a tenersi alla larga da tutti quegli elementi troppo molesti o troppo disattenti e che potevano pericolosamente urtargli il bastone o fargli perdere l’equilibrio. Anche in questo il suo occhio era diventato attento. Ritrovò l’uomo misterioso in compagnia di due suoi compari, entrambi Shinobi, fermi ad una bancarella della frutta. Uno dei nuovi arrivati afferrò una mela e la addentò di gusto davanti al fruttivendolo. Quando questi lo informò che il frutto andava pagato, immaginò Ensui interpretandone le movenze, il Ninja sguainò un kunai e glielo menò sotto il naso con fare minaccioso. Gli altri due si fecero una grassa risata e dopo aver lasciato il mercante a fare i conti con il grosso spavento, proseguirono per la loro strada senza pagare. Ensui ridusse le labbra ad una fessura in segno di disappunto. Mise una mano in tasca ed allungò al fruttivendolo un paio di monete d’oro, ben più di quanto gli spettasse per l’acquisto della mela.
    «Tenga, per il disturbo.»
    Non volle sentire ringraziamenti per la sua generosità e riprese a trascinarsi all’inseguimento del trio di Ninja. Neanche gli altri due li aveva mai visti. Li tallonò per un altro quarto d’ora buono e quando li vide entrare in una locanda ringraziò qualsiasi divinità avesse deciso di venirgli in aiuto in quel momento. L’intera gamba mandava spasmi di dolore continui e anche la schiena cominciava a protestare per lo sforzo eccessivo. Si accorse che le nocche della mano destra erano completamente sbiancate da un po’ e la mano stessa tremava ogni volta che portava il peso del corpo sul bastone. Si lasciò cadere su una sedia non lontana dal tavolo in cui i tre uomini avevano raggiunto altrettanti amici. Grosse pacche sulle spalle e via di grasse risate. Ensui ordinò un succo di ciliegia, appoggiò il bastone sulla sedia accanto a lui e distese lentamente la gamba menomata. Stava quasi comodo, anche se erano anni che non poteva concedersi un lusso del genere.
    Cominciò a spiare l’allegra compagnia di nascosto, stando attento a non dare troppo nell’occhio. La prima cosa di cui si assicurò fu l’identità dei nuovi amici, trovando una spiacevole conferma: nessuna di quelle facce gli diceva alcunché. Se avesse dovuto descriverle con un solo aggettivo, però, si sarebbe detto che quei tizi avevano tutti delle facce losche. Avevano tutti dei gilet nuovi di zecca, come se non avessero mai visto un solo giorno di battaglia, e nonostante fossero in pieno giorno stavano scolando una bottiglia di un qualche liquore come se niente fosse. Ensui disapprovò.
    «…è davvero uno spasso!» fece uno dei sei.
    «Io non capisco cosa ci troviate di così divertente. Per ora a me sembra soltanto un… limite.» rispose un altro, quello che lo aveva spinto ai margini della strada. Osservandolo in un contesto che gli era familiare, sembrava il più cupo della compagnia.
    «Sentite questa!» l’uomo che aveva rubato la mela batté un paio di volte sul tavolo, attirando l’attenzione dei compagni su di sé. «L’altro giorno ci hanno mandato in campagna in missione, così per farci abituare. Ad un paio di zotici piaceva derubare un mugnaio della sua farina, giù al mulino. Così noi andiamo e li facciamo fuori in men che non si dica.» Il Ninja si guardò intorno, in cerca dell’approvazione degli altri. «Allora mi accorgo che il mugnaio aveva una figliola niente male, così gli dico: “Voglio farmi la ragazza, me lo devi”. Lui dice di no, così gli tiro un pugno che lo manda a sbattere contro il muro e mi scopo la ragazza davanti ai suoi occhi!» Scroscio di risate da parte della compagnia. «Quella stronzetta per poco non mi stacca il cazzo a morsi, allora sapete cos’ho fatto? Le ho fatto assaggiare la mia lama e poi me la sono sbattuta di nuovo!»
    Così facendo estrasse ancora un kunai e ne leccò la lama in maniera oscena. Altre risate prolungate dei suoi amici. Ensui faticò a costringersi a restare fermo. Se solo fosse stato un po’ più giovane, e la sua gamba quella dei tempi migliori! Non avrebbe esitato un secondo a farla pagare a quei farabutti, lì davanti a tutti. Invece non fece niente. Semplicemente, non poteva fare niente. Lasciò quegli uomini ai loro sordidi discorsi e uscì dalla locanda, un lento passo alla volta. Lasciò sul tavolo la mancia per la cameriera e il succo di ciliegia, che quasi non aveva toccato.
    “Che cosa sta succedendo al mio Villaggio?”
     
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    Fragilità



    Erano passati diversi mesi dalla battaglia a Sunagakure contro i Dieci di Iwagakure. Lo scontro, anche se estenuante e faticoso, aveva visto l'alleanza degli Shinobi prevalere ancora una volta sui nemici senza grosse perdite. Una cosa a prima vista banale, forse. Un'alleanza su larga scala unita contro soli dieci avversari dava ben pochi dubbi sugli esiti. Il loro piano era stato sventato ma la cosa che davvero aveva garantito il successo dell'operazione era stata la prontezza d'animo di un giovane di Sunagakure che era resistito all'ex Tsuchikage grazie all'aiuto di un Mukenin. No, non si poteva parlare nemmeno di vero successo. Così la situazione in tutti i paesi alleati era cambiata rapidamente e gli immediati giorni successivi erano stati turbolenti per tutti vista l'elezione di due nuovi Kage. Questo nuovo cambio di potere aveva subito visto in Hayter Uchiha una figura di spicco e di carattere, uno che sapeva cosa voleva a sapeva come ottenerlo, mentre in Terumi Sajun una figura più fragile. Nonostante l'egregio compito che aveva fatto sostituendo il vecchio Mizukage la ragazza non sembrava aver la stoffa per essere un leader, a detta sua. Si ricordava perfettamente di averla vista "scappare" alla vista della Kirigakure utilizzata da uno shinobi di Konoha. In qualche modo il suo carattere era cambiato dopo l'elezione a Mizukage e la cosa non poteva che preoccuparla visto anche il suo strano acconsentimento alle proposte avanzate dalla foglia. Una cosa era certa, ora mantenere saldi i rapporti di fiducia che si erano creati in lunghi anni di sofferenze era prioritario e se quei due giovani Kage non avevano vissuto gli orrori della guerra e non l'avevano assaporata così intimamente i tre Kage più anziani avevano la saggezza per capire che il momento era più fragile di quanto non apparisse ad occhi meno attenti. Lo stesso spirito critico si era sviluppato nella giovane Ellye Kaguya che oramai non riusciva più a tenere quella preoccupazione solo per lei. Un po' titubante avanza nell'ufficio del Kokage dopo un suo invito ad entrare.
    "Ellye? Che piacevole sorpresa, vieni pure avanti. La tua missione com'è andata?" Chiese subito il Kage riconoscendo in quella maschera e quella fisionomia sua nipote che si presenta con un leggero inchino. "La missione è stata un successo. Inizialmente io-" Ma con un gesto della mano la ragazza viene interrotta. Da parte sua non aveva bisogno di un rapporto completo e dettagliato per assicurarsi che tutto fosse stato eseguito alla perfezione. "Va bene così. Ottimo lavoro. Se non c'è altro vai pure a riposare, sarai stanca." Aggiunse il Kokage mentre la ragazza si toglieva la maschera rivelando un viso piuttosto sciupato che preoccupa l’uomo oltre il soldato. La ragazza non sembrava ferita ma solo stanca, cosa che avrebbe ignorato in qualsiasi altro dei suoi sottoposti di ritorno da una missione, ma quando si trattava di lei la sua preoccupazione cresceva esponenzialmente come quella di un genitore, cose che, sotto un certo punto di vista, era pure. "In verità sono un po' preoccupata per la situazione attuale. Ultimamente ho dormito poco proprio per via di questo." Confessò la Kaguya spiegando anche il motivo di tale stanchezza.
    "Non preoccuparti, Ellye. La situazione al momento è stabile. Dalle informazioni che ci raggiungono i due nuovi Kage stanno operando bene nei loro villaggi. Kirigakure sta seguendo la linea tracciata da Ken Sajun mentre Konohagakure sta semplicemente riorganizzando le proprie forze in base alla visione del suo nuovo leader. Non c'è niente di strano." Mentì Marou, ben conscio di farlo. Anche a lui alcune cose non tornavano, anche a lui alcuni atteggiamenti risultavano ambigui, anche lui reputava certe scelte sbagliate. "La linea tracciata da Ken Sajun? Dici davvero?" Domandò stizzita Ellye. "Non devo certo dirtelo io che quando c'è una decisione importante da prendere lei è la prima che tentenna." Aggiunse acida la ragazza. Ormai l'argomento era stato tirato in ballo e quindi pure il Kokage non poteva tirarsi indietro. "Quindi? Cosa vorresti fare?" Chiese con tono fermo e severo. "Non possiamo certo alzare un putiferio perché non ci va bene la Mizukage. E' probabilmente ancora troppo giovane ma si farà col tempo." Aggiunse speranzoso il Kaguya, non conoscendo quanto marcio si aggirasse fra le sue lenzuola. A quelle domande nemmeno la ragazza sapeva dare una risposta e così finisce per abbassare lo sguardo imbarazzata. "Non lo so." Dovette ammettere a denti stretti. Il Kokage, alzatosi dalla sua sedia, si avvicina alla ragazza appoggiando una mano sulla sua spalla. "Non preoccuparti, non lasceremo che tutta la nostra fatica vada sprecata." Parole pronunciate solo per rassicurare la ragazza che non raggiungono lo scopo sperato.


    "Del Kazekgae che mi dici?" Domandò concitata la ragazza. Sapeva che Marou aveva inviato un clone fino a Sunagakure, immediatamente dopo la battaglia, per parlare faccia a faccia col Kazekage ma fino a quel momento suo zio non le aveva rivelato nulla di quell’incontro. "Non c'è nulla da dire. I rapporti fra i nostri villaggi non sono minimamente cambiati." Rispose tranquillo l'uomo. "Come?" Domandò dubbiosa la ragazza. "Com'è possibile che vada tutto bene dopo quello che Urahara ha fatto? Non solo ci ha traditi ma lo ha fatto dopo essersi impadronito dell'argilla esplosiva! Non può essere che al Kazekage vada bene... Non... Non glielo avrai mica tenuto nascosto?" Si chiese La kunoichi sbiancando per un attimo. Quella scelta poteva portare a conseguenze disastrose per il villaggio. "Rilassati, il Kazekage è stato informato." Si preoccupò di precisare il Kokage facendo sparire quella preoccupazione che per un attimo aveva attanagliato sua nipote. "Allora cos'è stato deciso?" "Niente di drastico. I suoi uomini hanno il mandato di catturarlo vivo, se possibile, e riconsegnarlo a noi. Praticamente lo stesso compito dei nostri." Rispose con tono calmo. "Non ha intenzione di catturarlo e interrogarlo lui? Non è preoccupato per il Bakuton?" Chiese ansiosa di risposta Ellye. "Non aveva eccessivo motivo di esserlo." "Ma-" nemmeno il tempo di replicare che il Kokage smorza sul nascere il suo tentativo di protesta. "Non preoccuparti." Disse con un falso sorriso in viso per poi girarsi e andare verso la sua poltrona. "Ojisan!" Urlò la ragazza per attirare la sua attenzione. Sbuffando Marou si ferma per girarsi ancora una volta verso la ragazza. "Se lui è il diavolo, allora qual è il suo capolavoro?" Domandò alla kunochi proprio come Ikkaku aveva fatto con lui.



    Quel ricordo confuso l'aveva fatta restare titubante per lungo tempo. Spesso e volentieri quella discussione con suo zio affollava la mente della giovane Kaguya. Non approvava la decisione intrapresa dal leader di Oto, la giudicava troppo azzardata e più volte aveva cercato dei chiarimenti al riguardo. Dopotutto la colpa del tradimento di Uarahara poteva essere sua. Dopo il trapianto del suo braccio era proprio stata lei a sorvegliarlo mentre studiava il Bakuton, era stata proprio lei a non accorgersi di quale insano seme stava nascendo nel corpo del giovane e con la situazione instabile dei paesi minori si domanda se l'occasione per chiarire quel suo dubbio si sarebbe presentata. Se era per il bene del villaggio non avrebbe esitato a mettere in dubbio gli ordini del leader di Oto. Era stata lui stesso a imporgli che il bene del villaggio veniva prima dei propri sentimenti e desideri. In questo caso l'alleanza con la sabbia era da preservare pur, nel caso peggiore, sacrificando la vita di un giovane. Il Kokage aveva capito che le parole pronunciate non avevano dato l'esito sperato ma poteva farci ben poco, lascia cadere la mano dalla sua spalla per poi indietreggiare di un passo e guardare la ragazza. "C'è altro?" Domandò con tono calmo per dare tempo alla kunoichi di fare mente locale. Domandare di Urahara non aveva senso, avrebbe ricevuto la solita risposta: -Non l'abbiamo ancora trovato.- Quindi lasciò da parte quel’argomento per passare a quello che più gli premeva. "Notizie dal confine?" Chiese la giovane facendo ovviamente riferimento a Taki. "No, i nostri che sono andati a perlustrare il confine non hanno trovato nulla, com'era logico pensare. Per scoprire qualcosa dovremo fare affidamento sulle squadre mandante all'interno di Takigakure o dalla parte del confine con Iwagakure, appena sapremo qualcosa sarà lo stesso Kazekage ad informarci." Dissi concisamente. Per Ellye era abbastanza, o meglio, anche insistendo non avrebbe ricevuto ulteriori notizie per cui con un leggero inchino si prepara ad abbandonare la sala. "Dimenticavo, uno shinobi di Suna si è imbattuto in Urahara durante una missione. Pare che l'abbia aiutato nella sua missione in qualche modo." Quelle parole, pronunciate dal Kokage mentre guardava fuori dalla finestra dando le spalla alla ragazza, sollevano leggermente il suo cuore. Forse poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo, forse Urahara non era marcio come il possessore del suo braccio. Non era nemmeno uno shinobi di Otogakure ma la consapevolezza di non aver lasciato andare un sanguinario macellaio per il momento gli bastava per alleviarla un po' dalle sue preoccupazioni.

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    Un incontro a lungo atteso



    Buio.
    Giorni e giorni di buio, interrotti solo dalla lieve luce che filtrava quando veniva aperta la feritoia, per consegnargli il cibo.
    Non che all'Architetto dispiacesse il buio, Natsu ci si trovava a proprio agio.
    Sin da quando era ragazzino anzi, aveva sempre amato il buio. Più fastidio gli davano le mura, attorno a lui, che gli impedivano di uscire.
    Con le sue sei braccia, cercò di grattarsi la schiena, in particolare nel punto in cui i Suniani gli avevano impresso il Fuuinjutsu che gli impediva di usare il Chakra.
    Ad ogni modo, se non avesse avuto tanto da fare, fuori, non si sarebbe trovato male, lì. Nessuno scocciatore, nessun pericolo. Come prigione non era neanche male, dato che a Suna mancavano la classica umidità e l'odore di muffa tipico delle carceri degli altri Villaggi. Natsu ne aveva visitate un paio, di cui la peggiore era sicuramente Pai Mei. La fuga da quell'inferno era stata certamente una delle sue imprese più mirabili. Adesso però vedeva ben poche vie d'uscita. Senza Jutsu, lasciare la sua cella era già parecchio difficile, ma anche ammesso che ci riuscisse, si sarebbe ritrovato ancora all'interno delle mura di cinta della prigione. Passare inosservato, senza ricorrere al Chakra e con sei braccia, era assai improbabile, e con un'intero esercito di Shinobi, magari il Kazekage stesso, intenzionati a fermarlo, vivo o morto. E anche ammesso che riuscisse a sfuggire a loro, sempre senza usare Jutsu, avrebbe poi dovuto attraversare il Deserto. Senza cibo nè acqua, e senza conoscere con certezza la strada.
    Se non si fosse annoiato così tanto, non si sarebbe nemmeno lamentato. Se il Kazekage gli avesse permesso di fare almeno qualche piccolo esperimento, là sotto, non avrebbe avuto alcuna fretta d'andarsene.
    Invece, più che la prigionia, il pessimo cibo e il buio, la noia lo aveva consumato, debilitandolo e frustrandolo oltre ogni limite, facendolo disperare e infuriare, per poi inghiottirlo piano piano, come una depressione.
    Ormai aveva sviscerato la situazione, analizzandola in ogni modo possibile, da ogni punto di vista. Non c'era niente che lui potesse fare, per sé stesso, per Tahaku, per Asuma o Urahara.
    La porta si spalancò di botto, facendolo trasalire e costringendolo a coprirsi gli occhi con le mani. La luce che irrompeva da fuori stavolta era candida e abbacinante, e feriva il suo sguardo come se fosse densa di lame.
    «Nidaime, è così che ti facevi chiamare, vero? È arrivata l'ora di fare due chiacchiere con il vecchio Ebizo.» gli annunciò un ANBU, prima di gettargli un sacco in testa e sollevarlo di peso, come fosse un fuscello.
    Percorsero diversi corridoi, salendo e scendendo le scale, ma l'Architetto si sentì trasportare per poco tempo, prima di essere deposto su una sedia. Evidentemente si trovava ancora in una qualche stanza del carcere.
    Quando gli tolsero il suo cappuccio, fu ancora costretto a tenere gli occhi socchiusi, ma la sua vista andava migliorando.
    «Natsu Rokubuki, del Clan Rokubuki di Otogakure no Sato, Mukenin poco famoso ma altrettanto pericoloso, se le mie informazioni sono esatte.» lo presentò un ometto anziano, posto di fronte a lui.
    Si trovava in una stanza piuttosto spoglia. Le finestre avevano le sbarre, e c'erano solo due sedie. Una occupata da Natsu, l'altra dall'ometto. La stanza aveva una porta alle sue spalle, e una di fronte a lui. Per il resto era completamente vuota, se si escludevano gli altri cinque Shinobi disposti a circolo intorno a loro.
    «E-Ebizo Chi-c-Chikamatsu, del Clan Chikamatsu della Sabbia. » disse trovando le parole con fatica, dopo tanto silenzio. «Supremo marionettista, Kazekage, leader di Sunagakure. Se le mie informazioni sono corrette.» rispose, mostrando un accenno di sorriso, per niente intimidito.
    Quello era un'incontro che si aspettava da tempo. Anzi, per come la vedeva lui, aspettava da fin troppo tempo.
    Più volte l'Architetto si era chiesto cosa potesse essere mai successo, fuori, da impegnare tanto a lungo il Kage. Prima della sua cattura aveva numerosi cloni, sparpagliati per il continente e le isole, con cui raccoglieva informazioni personalmente e che si sostituivano da soli per inviargli rapporto. Tuttavia nel momento in cui gli avevano imposto quel Fuuinjutsu, i suoi cloni erano scomparsi. La cosa più preoccupante di tutto ciò, peggio ancora che aver perso ogni contatto con l'esterno, era sapere quali e quanti degli altri suoi Jutsu si fossero dissolti.
    Le difese dei nascondigli avevano retto? Quanti agenti aveva perso? I suoi esperimenti potevano essere compromessi, o si trattava di un contrattempo?
    Era questo ciò che davvero snervava l'ex Nidaime, ma il Mukenin non l'avrebbe certo dato a vedere al Kazekage.
    L'ometto comunque non perse tempo raccontandogli di Elle e Taki, nè si scusò.
    «Sei un bel problema, per me, Architetto.» confessò invece.
    «I miei esperti hanno tentato di estorcerti ogni segreto, tramite i Jutsu in nostro possesso. Tuttavia le tue difese psichiche sembrano molto forti e la tua mente è particolarmente difficile da esplorare. Contorta.» continuò.
    Il Mukenin sorrise, prendendolo per un complimento.
    «Tuttavia, abbiamo dei frammenti...» continuò il Kage, improvvisamente a disagio.
    «Da quel che abbiamo, la mia intelligence e gli anziani, sono d'accordo che dobbiamo sapere di più, ad ogni costo.» disse, evidentemente turbato dalle implicazioni della sua affermazione.
    Natsu tuttavia non fece una piega. Anzi si sedette più comodo, incrociando le braccia ed accavallando le gambe.
    «Come puoi vedere, in questa stanza ci sono due porte.» riprese il Chikamatsu. «Quella alle tue spalle, ti riporterà nella cella da cui venivi. Quella dietro di me conduce a quella che gli ANBU chiamano sala delle confessioni. Non voglio nemmeno sapere quello che succede là, perciò se varcherai quella porta lo farai senza di me, e non sono sicuro che potrai raccontarmelo poi» sospirò.
    «Stai tentando di spaventarmi, Kazekage-sama?» domandò l'Architetto a quel punto. «E chi ti dice che col mio corpo avrai più fortuna che con la mia mente?» lo sfidò.
    Il Kazekage strinse i denti, fissandolo duramente. Era chiaro che preferiva che questi collaborasse, ma se non intendeva farlo, era per sua scelta.
    «Perché perdere tempo con le minacce? Chiedimi direttamente quello che vuoi sapere.» riprese ancora Natsu, in tono conciliante, cogliendo l'altro in contropiede.
    Il Kazekage esitò. Era chiaro che quello che aveva di fronte era un personaggio fuori dal comune. Persino la prigionia e la solitudine non erano riusciti a fiaccarlo del tutto. Anche in quello stato, si poteva percepire la sicurezza di sè, e il rispetto che costui incuteva.
    «Bene. Tahaku. Chi è?» chiese semplicemente.
    Stavolta fu l'Architetto, a tentennare. Che cosa avrebbe dovuto rispondere? Quanto poteva tacere?
    Il Kazekage era stato abile. A lui bastava un nome, ma Natsu non poteva sapere quanto vasti fossero quei frammenti e quanto avesse scavato il capo villaggio nel frattempo. Cosa doveva rivelare, si chiese. "Meglio dover raccontare la verità per essere creduti, che una menzogna per farsi scoprire bugiardi." Avrebbe detto la verità, decise infine.
    «Tahaku Yuki, Shinobi di Kirigakure no Sato, membro del Clan Yuki, detto il Demone dei Ghiacci. Scomparve poco prima del termine dell'ultima guerra civile, da allora è considerato disperso.» disse, riportando la versione ufficiale di Kiri.
    Il Kazekage annuì.
    «Tuttavia, ci risulta che costui sia ancora vivo.» lo imbeccò.
    «È così, ciò nonostante Kirigakure non lo ha mai dichiarato Mukenin.» ci tenne a sottolineare.
    «Non c'è ovviamente bisogno che ti confermi che lo conosco.» aggiunse poi, per risparmiare tempo.
    Di nuovo il Kazekage annuì.
    «No, non è necessario. Ma vorrei che mi raccontassi come e dove e quando lo hai incontrato la prima volta, invece.» incalzò.
    Natsu sospirò. Era un ricordo abbastanza lontano.
    «La Guerra era finita. Vi presi parte come Chuunin e ne uscii col grado di ANBU del Suono.» proferì.
    «Durante la Guerra avevo sentito parlare di questo Demone dei Ghiacci, ma non l'avevo mai incontrato di persona. Fui spedito a Tani, dal Villaggio, perché si vociferava che dietro le quinte qualcuno tramasse per un colpo di stato. Tani si trova in una posizione molto vantaggiosa, ma mantiene da sempre la sua neutralità. Forse qualcuno era intenzionato a sfruttare quella posizione.» rievocò.
    «A Tani la situazione era ben più dura di quanto Oto si aspettasse. Lo Shodaime e il Sandaime avevano intenzione di prendere il villaggio, rendendolo la capitale di un piccolo stato indipendente da cui organizzare le loro manovre. L'idea era stata di Shimura e di Nidia, in realtà, come avevo scoperto in seguito. Probabilmente Tani risultava più vantaggiosa come scelta dal punto di vista economico commerciale che da quello militare. Ad ogni modo non fui io a sventare quel piano dei Dieci di allora. Fu un gruppo di mercenari, guidati da Tahaku, che scatenarono una rivolta e riuscirono a costringere lo Shodaime a ritirarsi. Certo le forze dei Dieci non erano al completo, al tempo. Nidia e Shimura erano rimasti nascosti dietro le quinte, così come il Sandaime. Motoi faceva ancora parte del gruppo, ma con suo fratello Uchitake e sua figlia erano impegnati altrove, altrimenti le cose sarebbero potute andare diversamente.» continuò, valutando nuovamente lo scenario, nel ricordarlo.
    «Io stesso inoltre mi scontrai col Sandaime, ma il suo potere allora risentiva molto della Guerra persa, o non sarei sopravvissuto. Da allora comunque restai in contatto con Tahaku negli anni. Nel corso del tempo, il Kiriano mi convinse che il suo piano potesse funzionare, un piccolo risultato alla volta. Così, quando mi ritrovai solo, fuori da Oto e dal mondo degli Shinobi, mi rivolsi a lui.» disse, prendendo fiato per una pausa.
    «Ammetto che non sono riuscito a scoprire mai il motivo del tuo tradimento. Mi piacerebbe che me lo raccontassi spontaneamente tu.» ne approfittò il Kage.
    Natsu avrebbe preferito glissare, o mentire, ma non poteva essere certo che il vecchio Ebizo avrebbe accettato un no, nè che davvero non ne sapesse nulla. Poteva trattarsi di un astuto tranello o dello sfizio di un vecchio curioso. In ogni caso, doveva rispondere.
    «In gran parte ciò riguarda la storia e la scienza. Oto è un Villaggio che non ha mai avuto grande importanza, se non quando Orochimaru-Sama divenne il primo Kokage, ed iniziò a condurre i suoi esperimenti. Cademmo nuovamente in disgrazia, a causa della sua disfatta, finché l'attuale Kokage non prese parte all'ultima Grande Guerra. Da allora gli otoani temono di tornare nell'ombra e, dimenticando che molti di loro sono figli degli esperimenti di Orochimaru e in particolare il debito che hanno verso di lui per il Sigillo Maledetto, associano tutto questo agii esperimenti ed alla ricerca scientifica. Gli studi che possono essere intrapresi da uno Shinobi sono severamente controllati dal Villaggio, e chi non rispetta i divieti, viene arrestato. O bandito.» soggiunse.
    «E cosa volevi ottenere? E per quale motivo hai cercato Tahaku? Lui non è uno scienziato, come poteva aiutarti?» lo incalzò il Kazekage.
    Stavolta il Nidaime taque, deliberatamente.
    Aveva rivelato troppo, lo sapeva, ma fin'ora erano tutte cose del passato. Ora il Kazekage si stava avvicinando al presente, e ciò significava rischiare di tradire il suo sogno e quello dello stesso Demone dei Ghiacci.
    «Per ora può bastare. Riportatelo alla sua cella.» decise infine il Kazekage, quando vide che non avrebbe parlato. L'ultima cosa che vide fu il Kage che si voltava e se ne andava, immerso nei suoi pensieri, prima che gli venisse nuovamente calato in testa un sacco e tutto ridiventasse nero ed ovattato.

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    Ensui Nara

    Capitolo III


    Non riusciva a crederci. Quella donna stava entrando in un altro ristorante. Era il terzo della giornata e ormai Danzou si era persino stancato di vederla mangiare. Ogni volta ordinava piatti per un reggimento e pretendeva che loro le facessero compagnia. Shimura non sembrava prestarci molta attenzione, non protestando mai. Era sicuro di averlo visto mangiare ogni volta, nonostante il suo aspetto mingherlino, mentre lui non ce la faceva proprio più. Comprendeva che Nidia era un’Akimichi e che le sue doti combattive erano correlate al suo fisico… abbondante, ma così non era per lui.
    «Oh oh, Tesori miei, qui fanno alcuni dei migliori spiedini di polipo di tutto il paese ed è una vita che non li mangio» fece la donna, mentre una cameriera faceva loro strada verso l’alcova, con un tavolo sistemato in mezzo a due panche dallo schienale rigido. Come Nidia riuscì a entrarci con un unico fluido movimento, non se lo chiese nemmeno. Ci aveva rinunciato ormai da molto a comprendere le capacità fisiche della sua padrona.
    Nidia rimase delusa quando la cameriera lo informò che quel giorno non raccomandava quegli spiedini tanto desiderati dalla donna, perché la qualità dei frutti di mare che erano stati loro proposti quel giorno non era all’altezza. Danzou si era aspettato uno scoppio della donna com’era successo in un altro locale un paio di giorni prima, ma questa accettò di buon grado di ripiegare su della carne arrostita, che la ragazza del locale aveva definito come una rara prelibatezza. “Già, la ragazza se l’è giocata bene, proponendo qualcosa di ottimo, con una porzione offerta dalla casa per scusarsi di non potere offrire la loro specialità.” pensò tra sé e sé, poco entusiasta all’idea di dovere ingurgitare altra carne.
    E Shimura continuava a non dire una parola, perso a leggere un rapporto. Era così da quand’erano andati a prenderlo nel palazzo dove aveva eletto domicilio, dopo avere fatto sfrattare tutti i suoi abitanti in uno dei quartieri degradati di Konoha.
    «Danzou! Danzou, ma mi stai ascoltando?» scattò la donna, quando notò che questo non stava seguendo il suo monologo.
    «Mi scusi, mia signora, ma mi sono distratto» rispose lui.
    «Questo l’avevo notato da me! E voglio sperare che non sia quella cameriera ad averti distratto…» aggiunse la regina del Mercato Nero.
    Danzou non ci prestò attenzione. Non poteva dirsi dispiaciuto dal fatto di essersi allontanato dalle attenzioni di Nidia, che aveva trovato fin troppo pericolose in alcune occasioni, compensate solo da certe sue abbondanze e quasi totale mancanza di limiti al letto. Terumi era più casta, ma riusciva in questo a rendere ogni superamento dei suoi limiti qualcosa di prezioso in un modo che Danzou stesso si sorprendeva ad apprezzare.
    «No. Lei non c’entra» replicò l’ex ninja di Kiri.
    «Ah! Bene, perché né ho già abbastanza con Shimura che non mi ascolta!» dichiarò lei, totalmente disinteressata a cosa potesse occupare la mente del suo sottoposto, togliendo di mano i fogli che il vecchio stava studiando con così tanta attenzione. «Ancora fissato con quello lì, vedo?» affermò, prima che i fogli sfuggissero dalle sue mani, come dotati di vita propria.
    «Ancora a sottovalutare l’importanza di certi dettagli, dovrei dire…» replicò il vecchio, dimostrando un’insolita verve battagliera nei confronti della sua signora.
    Danzou ignorava di cosa i due stessero parlando. Aveva passato troppo tempo a Kiri nelle ultime settimane per essere veramente informato di quello che succedeva a Konoha e non chiese. Non ne aveva bisogno. Se voleva saperlo, l’avrebbe scoperto per conto suo, senza dovere renderne conto alla “Regina”. Già, Danzou in alcuni momenti si sentiva recalcitrante a seguirla in modo cieco come lei credeva, ma lui era tutto tranne uno che non sapeva guardare oltre ciò che gli veniva posto davanti.
    Proprio per questo si era accorto in fretta che quel giorno c’era qualcosa di diverso. Era nell’aria, nei suoni, in tutti quegli elementi che la mente cosciente non percepiva, ma che il subconscio riusciva a cogliere facendo tintinnare il campanello d’allarme di quello che la gente chiamava sesto senso. Una volta risvegliato, non era stato difficile accorgersi di quello che non andava. Era quel vecchio con il suo bastone, l’unico appiglio di un anziano dalle gambe malandate. Un derelitto di una generazione che non voleva mollare la propria presa sulla vita, troppo vecchio e troppo stanco persino per fare quello.
    “Si arrenderà…” si era detto l’uomo all’inizio, notando tramite l’occhio di Ennosuke come il vecchio avesse problemi a mantenere il loro ritmo, forzando le proprie gambe oltre il necessario, cercando di colpire il terreno con il bastone nel modo più lieve possibile. Eppure sfruttando con esperienza la sua conoscenza del territorio per compensare le sue scarse capacità fisiche, il vecchio era stato sempre lì, ad un passo da loro. Danzou avrebbe voluto quasi sorridere. Quel relitto era determinato e in gioventù doveva essere stato un avversario formidabile. Riconosceva i segni dell’esperienza, di abilità sviluppate nel corso di anni di scontri. Quella vecchia carcassa meritava probabilmente più rispetto di quanto gliene veniva tributato da ogni persona che lo incrociava. L’aveva visto venire quasi investito da diverse persone, che si permettevano pure di inveire contro di lui. Eppure il vecchio Nara non mollava.
    Anche in quel momento era in quel ristorante, ad appena due tavoli da loro. Anche lui stava mangiando appena. “Strano a dirsi, considerando quanto Nara ed Akimichi siano legati tra loro… dovrebbe essere più abituato” si disse, osservandolo di nuovo attraverso la materia. Voltava loro le spalle, ma Danzou sarebbe stato pronto a scommettere che non si perdeva lo stesso una sola parola del loro discorso e la cosa lo preoccupava un poco.
    Non stavano dicendo niente di particolare, niente che potesse fare scoprire il loro piccolo imbroglio, se cosi poteva essere definito. Il solo fatto che il vecchio si permettesse di seguirli era di per sé una minaccia, perché implicava che sospettava qualcosa.
    «Dove vai? Non hai praticamente toccato cibo.» commentò Nidia quando lui si alzò.
    «Devo sbrigare una commissione da queste parti. Torno tra un paio di minuti.» affermò Danzou di rimando, prima di allontanarsi. Nidia e Shimura sarebbero rimasti lì almeno per un'altra ora buona. Lo sapeva ed ormai lo sapeva anche il vecchio, quindi non si sorprese quando lo vide pagare ed alzarsi per seguire lui. “Meglio se sistemo io il problema in modo discreto” si era detto.
    Natsuhi non ebbe problemi ad infilarsi in mezzo ad una serie di vincoli dove non passava anima viva, procedendo ad un passo spedito sì, ma non così tanto da lasciarsi indietro il vecchio. Eppure, quando questo giunse all’intersezione di un paio di vincoli, l’ex-kiriano era scomparso. Ensui strinse con forza le dita sul bastone. Danzou lo vide chiaramente. Sicuramente, in gioventù non si sarebbe mai lasciato sfuggire una persona in quel modo, ma era passato tanto tempo da allora. “Povero vecchio. Non riesci proprio a capire che non sono più cose che ti riguardano…” si disse Natsuhi, a meno di due metri dal vecchio Nara, iniziando ad uscire dalla parete del palazzo in cui si era infilato.
    «Lo sai, vecchio, che seguire degli alti ufficiali del Villaggio potrebbe fare pensare male di te?» fece, palesando la propria presenza.
    Ensui si girò di scatto, o almeno quello che per lui era di scatto, solo per essere afferrato e spinto con poca gentilezza contro la parete alle sue spalle.
    «Di voi riesco a pensare male persino senza che pediniate qualcun altro, se è per quello!» replicò l’anziano.
    “Diretto e combattivo!” Danzou non riuscì a trattenere un sorriso. «Mi ricordi quel vecchio grassone del precedente Mizukage. Anche lui non capiva quand’era ora di smettere, quand’era ora di dedicarsi a sé stesso. Se l’avesse fatto, Jima non sarebbe mai arrivato a Suna perché quel vecchio l’avrebbe fatto fuori… invece, preferì proteggere il Villaggio, venendo colpito da uno che gli era inferiore.» Affermò l’uomo con un velo di rabbia, ma anche d’altro.
    «Eppure, nel tuo tono, un certo rispetto c’è!» replicò il Nara, cercando per un attimo di fare forza per liberarsi, ma fu inutile.
    L’altro era nel pieno delle sue forze, con un baricentro stabile e piedi affidabili su cui poggiare il suo corpo. Natsuhi sorrise un pochino di più, in modo quasi amaro. «Forse, ma non è il tuo caso. Tu sei solo un fastidioso vecchio che ammazzerò la prossima volta che lo becco a girarci intorno! Ed Ora sparisci!» ordinò Danzou. Ensui strinse i denti fino a farsi sanguinare le gengive per la rabbia, ma si rendeva conto che non poteva fare altro che allontanarsi. Era stato scoperto e gli veniva offerta una via d’uscita da quella situazione. Non era la cosa più onorevole, ma fu costretto ad allontanarsi, trascinandosi dietro il peso di un altro fallimento.
    Danzou lo osservò attraverso i palazzi, camminare stanco ed abbattuto, non più con un sorriso sulle labbra. Il Nara ci aveva azzeccato. Natsuhi non l’avrebbe mai riconosciuto con nessun altro, ma rispettava il vecchio Mizukage per essere stato disposto a morire in quel modo per quello che era importante per lui. “Se ti avessero scoperto gli altri avresti fatto la stessa fine, o peggio, vecchio pazzo. Vedi di stare lontano dai guai…” si disse, senza sperarci troppo, prima di avviarsi di nuovo verso il ristorante dove sperava Nidia avesse svuotato anche i piatti che spettavano a lui.
    Grazie a Serge per il post :)
     
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    Attacco a Sorpresa



    Era passato molto tempo da quando Ellye Kaguya si era presa una pausa dal suo servizio. Non si ricordava nemmeno da quant'era che non poteva passare un'intera giornata a riposarsi e rilassarsi. Se non era in missione aiutava il Kokage a svolgere le faccende burocratiche per il villaggio in vista di una sua possibile successione quindi il tempo libero non esisteva nella routine della giovane Kaguya. Ma ogni tanto anche lei necessitava di riposarsi e questo era uno di quei giorni. Aveva semplicemente deciso di restare al villaggio con alcune sue vecchie amiche dell'accademia per parlare come persone comuni. Si andava dagli argomenti più frivoli a quelli più pesanti, dallo scherzare all'assumere un atteggiamento eccessivamente serio. Una battutina ogni tanto, una finta offesa, e il pomeriggio non faceva che trascorrere tranquillamente fino a quando una delle sue compagne non avanzò un argomento tanto indelicato quanto fragile. "La situazione fra i villaggi è calma come sempre immagino." Avanzò Mira più per caso che altro. Era una semplice Special Jounin, lo era da tempo ormai, ma la sua avanzata nella scala gerarchica aveva avuto un brusco freno dopo aver subito una pesante ferita in una missione. Da quel giorno la sua voglia di migliorarsi e diventare più forte era andata via via scemando e la mancanza di abilità, che era sempre stata colmata con la voglia di fare, non poteva che arrestare la sua crescita. Dai lunghi capelli biondi la ragazza non aveva un'idea ben precisa dell'attuale tensione dei vari villaggi. Proprio per questo Ellye, dopo un minimo sussulto di preoccupazione, risponde fugacemente alla sua amica. "Niente di che. I due nuovi Kage stanno facendo un buon lavoro mentre gli altri tre vecchiacci, beh, sono tre vecchiacci. Hihihi." Rispose la Kaguya cercando di buttarla sul ridere. L'intento funziona e Mira segue il suo esempio scoppiando in una risata nascosta con un gesto della mano visto che si trovavano in luogo pubblico e le sembrava inappropriata. Anche Yoshiko, l'altra kunoichi al tavolo, si lascia andare a un flebile sorriso per poi avanzare una domanda a sua volta. "Tutto bene Ellye? Mi sembri un po' stanca?" Chiese sapendo di mentire. Ciò che aveva visto non era stanchezza ma menzogna, dallo sguardo della sua vecchia compagna sapeva che qualcosa non andava. Anche lei non era mai andata oltre Il rango di Special Jounin ma a differenza di Mira non era per mancanza di abilità o voglia, anzi. In abilità solo in pochi stavano al suo passo, la stessa Kaguya non si riteneva, almeno in tempi passati, superiore alla ragazza. Eppure la sua crescita si era fermata. Yoshiko si era sposata, ed aveva avuto un figlio, quando era ancora giovane e per tale motivo non era entrata negli ANBU, in modo da potersi dedicare al meglio alla famiglia e questo aveva impedito che diventasse una delle migliori kunoichi nel villaggio, almeno secondo Ellye. Ciò nonostante era entrata nella divisione di tortura e interrogatori del suono, specializzandosi proprio in questa seconda branca. Non era un lavoro pericoloso e le aveva donato una capacità di analisi del volto umano incredibile. Proprio per tali motivi questa domanda era ancor più insidiosa della seconda e la Kaguya si trovava un attimo spaesata e impiega qualche secondo a rispondere. "Già, sono solo un po' stanca." Disse brevemente cercando di farla bere a Yoshiko. Sapeva che non sarebbe stato facile ed, infatti, così non fu. Era stata presa troppo alla sprovvista per mentire e così il suo bluff era subito stato scoperto dall'amica coi corti capelli castani che, capendo il disagio della sua amica, evita di approfondire la faccenda e si limita a concludere il discorso con un sorriso. "Dovresti riposarti più spesso." Il momento di tensione sparisce com'era comparso e in breve il trio torna a parlare del più e del meno gustando dei dango.
    Ormai erano diverse ore che le tre kunoichi stavano sedute al solito tavolo quando il cancello sud di Otogakure si comincia ad aprire. Non era un evento insolito, anzi, era successo diverse volte in quelle ore. La cosa strana era che la maggior parte degli shinobi li presenti si era subito accalcata al portone. Incuriosita anche la Kaguya guarda in quella direzione fino a quando non sente qualcuno chiamare i soccorsi. Preoccupata la kunoichi si alza, seguita dalle sue due amiche, e si avvicinano anche loro alla porta sud. "Cosa?" Con sguardo sbigottito la ragazza vede uno shinobi di Otogakure tornato insanguinato ed esausto. Non era la prima volta che succedeva qualcosa di simile, non era la prima volta che uno shinobi tornava ferito da una battaglia, ma anche se tutto questo poteva sembrare normale non lo era. Non era mai capitato che Iku Rama tornasse in quelle condizioni al villaggio. Mentre le domande affollavano la testa della ragazza lei riesce ad aprirsi un varco fra la piccola folla e a raggiungere lo shinobi. "C-Cos'è successo Iku?!" Domandò concitata la ragazza vedendo le sue condizioni. Annaspante e senza forze lo shinobi alza lo sguardo verso la kunoichi. "D-Devo avvertire.... Devo avvertire il Ko-ka-ge. Anf anf." Il respiro pesante e faticoso dello shinobi avevano lasciato la piccola folla ammutolita. Ad ogni lettera pronunciata una gocciolina di sangue cadeva a terra. "Sono stato.... anf anf... Attaccato... Da..." Lo sguardo si spostava tutt'attorno indicando i presenti. Nonostante le sue condizioni Iku era riuscito a mantenere la lucidità per non svelare l'identità del suo aggressore in quel momento. Ellye non impiega molto a capire che non voleva far sapere a tutti chi era stato e questo rendeva la situazione ancor più preoccupante ai suoi occhi. Senza perdere tempo la ragazza alza l'uomo e con l'aiuto di uno Special Jounin che stava li di guardai si dirigono verso l'ospedale. "Avvertite il Kokage e dite che è tornato uno dei nostri ferito." Ordinò la kunoichi. Non sapeva nemmeno lei a chi di preciso, bastava uno qualsiasi di quei Chuunin per portare la notizia. Erano rimasti tutti sbigottiti e ammutoliti. L'unico che aveva reagito era stato un neo-Chuunin che con prontezza si era preso il compito di avvertire il Kokage ed era schizzato a tutta velocità per il villaggio. In breve il ragazzo arriva all'ufficio del Kaguya ma senza fare tanti complimenti piomba nell'ufficio dalla finestra invece che dalla porta. Al suo interno, oltre al Kokage, era presente un altro individuo. Alto circa un metro e ottantacinque per cento chili di peso, dal fisico possente e capelli corti, era per certo uno shinobi fidato di Oto visto che, ancor prima di avanzare parola, gli aveva puntato un kunai alla gola arrivandogli alle spalle. "Sayuuki, calmati." Intervenne pronto il Kokage mentre il chuunin non aveva fatto una piega, non si era né spaventato né scomposto. "Signor Kokage, scusi l'intrusione, ma è tornato uno dei nostri uomini ferito gravemente da una missione, ora lo stanno portando in ospedale." A quelle parole Marou non mostra particolare reazione, era una cosa normale ma forse per un novellino come quello che aveva davanti era sembrata una cosa molto preoccupante. Il Chuunin notando la reazione contenuta del Kokage precisa meglio l'accaduto. "Ha detto di essere stato attaccato da qualcuno ma non ha voluto specificare chi." Disse acutamente il ragazzo attirando l'attenzione di Marou. "Sua nipote mi ha detto di avvisarla." A quelle parole il Kokage capisce subito che la situazione poteva essere più grave di quanto pensato inizialmente. "Lo shinobi si chiamava. Si chiamava Iku, ma non so il cognome." Sentendo quel nome anche il leader del suono spalanca gli occhi incredulo mentre il kunai era sparito dalla gola del ragazzo, anche se non sapeva bene quando.
    Intanto Ellye era riuscita a portare Iku Rama all'ospedale dove lo avevano subito fatto stendere e cominciato le operazioni di primo soccorso. Lo sguardo dell'uomo vagava senza una meta apparente per riprendere lucidità solo sporadicamente. La kunoichi sapeva che da un momento all'altro avrebbe perso i sensi per via della mancanza di energie più che per l'emorragia. Infatti anche se ricoperto di sangue le ferite visibili erano piuttosto ridotte e non potevano averlo imbrattato in quel modo, probabilmente, e semplicemente, la maggior parte non era il suo. Prestato il primo soccorso, però, Iku insiste per poter rimanere da solo con Ellye e la ragazza non può che acconsentire. "Avevo completato la mia missione." Pronuncia a bassa voce Iku per fare meno fatica. "Ma sono stato attaccato all'improvviso.... Erano in quattro, ma fottutamente forti..." Confidò l'uomo. "Non so se sono riuscito ad ammazzarli tutti, sicuramente uno non camminerà non avendo più le gambe..." Aggiunse con sguardo pieno di furia ma accompagnato da un sorriso soddisfatto per l'impresa compiuta. "'L'ultimo è riuscito a colpirmi di sorpresa e a fuggire portandosi via gli altri... Anf anf..." L'uomo era sempre più stanco e i suoi occhi ormai erano praticamente chiusi mentre la porta della stanza si era socchiusa. "Kaguya-sama, erano ANBU della foglia." Confidò con le ultime forze che lo abbandonavano. A quelle parole la kunoichi sussulta, ciò che temeva si stava forse per realizzare? Cos'era successo alla pacifica convivenza che i cinque grandi villaggi avevano vissuto negli ultimi anni al costo di numerose vite? Ma la sua preoccupazione non poteva che aumentare visto che qualcuno era entrato nella stanza in un momento decisamente inappropriato. "Nii-sama? Nii-sama!" Lo sbigottimento iniziale aveva ben presto lasciato posto alla paura. Subito Sayuuki si lancia verso il letto dove suo fratello giaceva senza coscienza. "Nii-sama, rispondimi!" Urlò preoccupato l'uomo. "Calmati Sayuuki, non è in pericolo di vita, ha solo bisogno di riposare." Cercò di tranquillizzarlo la kunoichi mentre dei ninja medici entravano in stanza per portare via Iku e cominciare l'operazione. Un singhiozzio strozzato, una lacrima, e quando Iku esce dalla porta accompagnato dai ninja medici anche lo sguardo del fratello muta velocemente diventando quello per cui era stato soprannominato Magan no Otoko. In breve l'uomo esce dalla porta mentre Ellye tenta invano di fermarlo. "Aspetta, non essere precipitoso!" Sapeva bene quali potevano essere i suoi sentimenti e i suoi intenti. Proprio per questo doveva fermarsi e se non lo avesse fatto con un'incitazione verbale avrebbe dovuto usare la forza. Però, appena l'uomo mette piede fuori dalla porta, qualcosa gli piomba addosso. Sayuuki, senza nemmeno accorgersene ed infuriato da morire, si trova ben presto a terra. Il braccio sinistro bloccato dalla gamba sinistra avversaria sul pavimento. Il destro girato a ridosso della schiena e bloccato sulla stessa dal ginocchio destro avversario, mentre la testa era stata schiacciata contro il pavimento dalla mano destra. "Non hai sentito la signorina? Ti ha detto di aspettare, cane rognoso!" Vedendo quella figura Ellye si tranquillizza un minimo. Forse non era la persona più di tatto presente a Otogakure ma probabilmente era una di quelle che potevano bloccare Sayuuki. La maschera da ANBU copriva i suoi tratti ma dal fisico e dal disegno della stesa maschera la kunoichi non aveva impiegato molto a capire di chi si trattava. "Fottiti, novellino!" Inveii l'uomo schiacciato a terra mentre cercava, inutilmente, di rialzarsi. Dallo sguardo che intravedeva attraverso la maschera aveva capito anche Rama di chi si trattava. Nonostante la sua recente promozione a Capo Squadra ANBU era già sulla bocca di tutti da tempo. Aveva una forza e abilità invidiabili ma non era quello che più faceva parlare di lui, bensì era la sua crudeltà la qualità tanto chiacchierata. "Sai, potrei anche lasciarti andare, ma poi eliminare il tuo cadavere sarà una rottura di palle. Coi tuoi cento chili impiegherei un bel po' per farti sparire." Disse con tranquillità l'ANBU facendo lievemente calmare l'uomo che aveva bloccato. Sayuuki sapeva che non stava scherzando, lo avrebbe fatto veramente, ma non era quello che lo aveva fatto rinsavire ma più il fatto di diventare una sua preda. Non era uno che si preoccupasse di fare a botte e non andava particolarmente in cerca di rogne, Gabrihell Van-Lee era semplicemente il più spietato cacciatore di mukenin che Oto avesse mai visto. Essere presi di mira da lui voleva dire essere dei mukenin e questo pensiero aveva fatto desistere Sayuuki che rabbrividiva al solo pensiero di diventarlo. "Sayuuki, calmati e aspetta che tut fratello finisca l'operazione, avrà bisogno di qualcuno vicino. Mentre tu." Disse Ellye indicando l'uomo mascherato senza pronunciare il nome per non far cadere la sua copertura. "Torna pure ai tuoi compiti." Concluse la donna placando quella situazione tesa che si era creata. In breve i due obbediscono agli ordini impartiti mentre la Kaguya si dirige da Marou per discutere la situazione. Lo raggiunse in appena cinque minuti e lo stesso Kokage si era già preoccupato di raccogliere tutte le informazioni dei presenti che avevano assistito al ritorno di Rama. "Ojisan, cosa pensi di fare?" Chiese la ragazza dopo aver esposto il breve racconto di Iku. "C'è poco da fare. Non permetterò che quest'aggressione rimanga impunita. Tutti i Kage saranno avvertiti della cosa." Disse con voce severa il Kokage.
    Nelle due ore successiva e i due Kaguya restarono chiusi in ufficio per pensare a come agire e quali parole usare, fino a quando ben tre lettere erano state scritte. Una diretta alla Mizukage, una al Raikage e una al Kazekage. Tutte e tre portavano lo stesso contenuto, tutte e tre usavano le stesse parole severe, tutte e tre spiegavano dell'aggressione di Konohagakure nei confronti di uno dei suoi uomini.

    Grazie a Susa per il post :)
     
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    «Che diavolo, Kambei, ti credevo morto!»
    Il Chuunin alle porte del villaggio sorrideva, osservando l'uomo dalla barba nera e incolta che ricambiò la sua cordialità dedicandogli un espressione altrettanto calorosa.
    «Non posso farci niente, era una missione di livello A» esclamò con voce calda l'altro.
    «Tre mesi, diavolo, tre mesi! Ti hanno mandato ad ammazzare un'organizzazione intera?»
    «No, non sono così bravo. Ma sono stato tenuto occupato con certe...faccende.»
    «Quindi torni dal grande capo, chiaro. Ci si becca, Kambei!»
    Nonostante fosse volutamente criptico, l'uomo alle porte del Villaggio decise che non c'era motivo di indagare oltre. Dopotutto era Kambei, ed era appena tornato da una dura missione.
    Kambei si allontanò a grandi passi dalle porte di Konoha, calandosi il cappuccio sul capo e cancellando dal suo volto l'espressione di contentezza di poco prima, sostituendola con una di preoccupazione.
    "Ci mancava giusto che mi scoprissero perché il tizio ai cancelli conosceva questa faccia." L'uomo si schiarì la gola e prese un lungo, ampio, respiro. Gli odori della città gli invasero le narici, amplificati dieci volte, chiari come il profumo di un fiore. "Per fortuna era particolarmente stupido, non si è nemmeno accorto che non avevo idea del suo nome, nonostante fosse sotto Genjutsu."
    Si fermò per qualche istante, concedendosi di poter ammirare la capitale del Paese del Fuoco, Konohagakure, brillare nella sera. C'era qualcosa in quel villaggio che più di ogni altro, esclusa Sunagakure, lo faceva sentire a suo agio. Il clima mite, la brezza dolce, il calore delle lanterne ai lati della strada, i volti rassicuranti degli Hokage ai limiti del villaggio. Accanto al volto di pietra di Hiruzen Senju, scavato nella dura roccia, era in preparazione la scultura del viso per il nuovo Hokage. Per allora però non c'era altro che nuda pietra priva di vita e sentimento, un volto spigoloso, acuto e irregolare. Si rimise in cammino, entrando nel pieno della città: chioschi, ristoranti aperti e colmi di cibarie, la luminescenza delle locandine dei negozi, il chiacchiericcio della gente riunitasi nelle strade per festeggiare nient’altro che l’essere vivi. Al lato della strada principale per il palazzo del Kage, incombente dall’alto su quasi ogni altro edificio, riconobbe uno spettacolo di artisti girovaghi intenti ad intrattenere l’ampio pubblico seduto attorno ad un palco, per buona parte formato da bambini. Era uno spettacolo teatrale quello che mettevano in mostra, e, a giudicare dalle vesti, dalle armi di scena e da alcune frasi, doveva essere uno scontro tra Ninja. Uno classico, per altro.
    «Arrenditi ora, Madara!» disse uno dei due, sulla sua armatura spiccava il simbolo del Clan Senju. Il suo avversario portò la mano destra alle labbra, riempiendo l’incavo orale. Alzò la torcia che reggeva con la sinistra fino ad una decina di centimetri dal suo volto, sputando ciò che aveva inghiottito poco prima, generando un ampia colonna di fuoco, da cui l’altro s’era ben visto di rimanere lontano già antecedentemente.
    «Cedimi Konoha, Hashirama!»
    Si strinse nel cappotto scuro, allontanandosi dalla scena. Nostalgico, avrebbe detto, se non fosse stato per il fatto che nessun artista vagabondo aveva mai l’ambizione di mettersi in viaggio per portare il suo talento a Sunagakure.
    “A pensarci bene, non è un periodo qualunque questo. La festa per la fondazione di Konoha dovrebbe essere vicina.”
    A metà del percorso della strada principale la figura cambiò rotta, entrando in una delle vie adiacenti ad essa. Portò gli occhi agli edifici agli angoli della strada cercando un nome in particolare, camminando a passo sostenuto, finché non trovò ciò che cercava un paio di minuti più tardi.
    “Il Boccale del Re” recitò a mente, leggendo l’insegna del locale su due piani che riconobbe come il punto di incontro. Già dall’esterno poteva sentire risate sguaiate provenire dall’interno, insieme al tanfo di alcol, nonostante non si stesse concentrando nell’acuire i suoi sensi. Spalancò la porta e mise un piede dentro la topaia dal nome pretenzioso, trovandola per metà deserta. Ad essere precisi, avrebbe detto che era buona parte dei tavoli ad essere rovesciata. Tra quei tavoli rovesciati e quelli ancora in piedi c’era una scena in particolare che catalizzava l’attenzione. Gli sguardi dei clienti convergevano periodicamente su tre Ninja seduti al centro del locale, l’anima della festa che aveva udito poco prima, il gestore dello stesso dietro il suo bancone di legno marcio, e lo Shinobi che lo teneva per il colletto. Misurò i passi, stando attento a fare il meno rumore possibile per non spostare l’attenzione su di lui, il che sarebbe stato male. Nonostante fosse stato obbligato a vestirsi similmente al morto che impersonava, nulla gli impediva di nascondere il suo volto e la sua identità quando la cosa non gli avrebbe giovato. Non avrebbe nemmeno corso il rischio di rimanere lì se non fosse stato necessario e certamente non si sarebbe esposto in alcun caso.
    «Come fai ad aver già finito il Saké? E’ solo una settimana che bazzichiamo in questo posto!» squittì quello che teneva il gestore sollevato a mezzo piede da terra. Il tizio era piccoletto, aveva i capelli d’un rosso accesso, due braccia enormi e uno sguardo derisorio sul viso. Dedicò un’occhiata al gruppo di scimmie urlanti poco più dietro senza scomporsi.
    «N-non ho altro, vi ho detto! V-vi prego, una settimana è stata sufficiente a terminare le mie scorte…e non ho ricevuto Ryo-»
    Lo Shinobi lo fulminò con lo sguardo, serrando la presa.
    «Mi sembrava chiaro che il liquore fosse un omaggio al duro lavoro dei Ninja di Konoha. Non sei forse grato, vecchio spilorcio?»
    «S-si, certo. E’ che... non ho guadagnato abbastanza per ricomprarne subito dell’altro questa settimana.»
    L’altro sorrise, mollando l’uomo all’improvviso, che si mantenne per un attimo in precario equilibrio prima di stabilizzarsi.
    «Ci credo.»
    Lo Shinobi sputò per terra, dirigendosi poi verso l’uscita facendo cenno agli altri di seguirlo. “Kambei” rimase immobile, mentre il corteo gli passava accanto, sghignazzando.
    «Mi chiedo perché perdo il mio tempo qui. Persino il mio piscio ha un sapore migliore» fu l’ultima frase che udì, prima che uscissero.
    L’uomo si concesse un lungo respiro. Non che fosse qualcosa di completamente inconcepibile, ma vedere degli Shinobi agire in modo così noncurante davanti a dei civili era piuttosto insolito, e in particolare l’atteggiamento riservato da quelli era stato abbastanza aggressivo, più di quando avrebbe dovuto essere consentito. Probabilmente era anche per quello che si trovava li.
    Mosse i propri passi fino al bancone, scambiando con il proprietario solo due parole, quanto bastava per dirgli che si sarebbe probabilmente trattenuto per la notte. Il locandiere non disse granché, ancora preso per l’accaduto, e a lui stava bene così.
    Salì con calma i gradini che conducevano al secondo piano, preparandosi ad incontrare il contatto a Konoha. A quanto pare, però avrebbe dovuto faticare meno di quanto immaginava. L’Inuzuka era dall’altra parte del corridoio, che lo fissava divertito. Non parlò, fece solo cenno di seguirlo, muovendosi verso una delle stanze sul piano. Fu solo quando la porta dietro di loro fu chiusa, che il regolare prese parola:
    «Puoi cambiare il tuo aspetto, ma non il tuo odore, Asu-oh, giusto. “Kambei”.»
    Asuma Sakurazukamori sorrise con una faccia che non gli apparteneva, appoggiando le spalle al muro dietro di lui.
    «C’è un limite a quanto posso fare. E anche a quanto puoi fare tu, Sakuragi, vedo. Il casino qui sotto…» disse, indicando il piano sotto di loro: «…non avresti dovuto occupartene?»
    L’Inuzuka storse il naso, contrariato.
    «E’ per questo che sei qui.»
    Si mosse per la stanza, afferrando la borsa sul letto e tirandone fuori dei documenti. Il Fiore del Deserto afferrò le carte, iniziando a sfogliarle con calma.
    «Sono profili di Shinobi in servizio» rilevò, con ovvietà.
    «Già, ma la cosa strana è un’altra.»
    Asuma annuì.
    «Mancano le date di reclutamento e i numeri di immatricolazione Shinobi.»
    Lo Shinobi di Konoha calò leggermente il capo in segno positivo.
    «Guarda bene. Sono sicuro che troverai anche le facce dei tizi che hai visto poco prima.»
    «Non è necessario, Sakuragi. Ormai ho capito cosa pensi» esclamò il Mukenin della Tela riconsegnando i profili Shinobi.
    «Ma non è mica finita. Sono sicuro che c’erano da qualche parte altre scartoffie riguardo a tre missioni di livello D finite con l’assassinio di vari civili quando non era assolutamente richiesto, e solo questo mese, ma sono sparite. Due giorni fa uno di quelli su queste carte ha pestato a sangue un paio di apprendisti dell’accademia in quella che avrebbe dovuto essere una dimostrazione di lotta. Il comportamento dei Ninja in città si è fatto arrogante, e il tizio qua sotto non è l’unico negoziante insofferente alla situazione in città. E questo solo a Konoha, “Kambei”. Non oso immaginare come sia la situazione fuori dalla città, anche nei piccoli villaggi anonimi meta di missioni. Per uno che tengo al guinzaglio altri dieci si scatenano.»
    Asuma aggrottò la fronte. Aveva già capito dai rapporti di Saku che qualcosa non andava a Konoha, e quanto visto in quella locanda aveva fugato ogni dubbio. Nei mesi precedenti aveva anche saputo di un certo fermento ai confini delle Terre di Nessuno. Movimenti di Mukenin, ovvio. La differenza era che con il casino accaduto a Kusa, nemmeno per un attimo si era sognato di capire se la meta di tutti i traditori fosse la stessa, l’aveva semplicemente dato per scontato. E poi, era Konoha. La calda, accogliente, onorevole Konoha. Chi avrebbe sospettato con così tanti se e ma all’orizzonte?
    «Allora forse hai anche capito cosa vorrei che facessi, e cosa vorrebbe anche chi-dico-io, se sapesse.»
    «Ma lui saprà, Saku. Da me, il prima possibile.»
    L’Inuzuka incrociò le braccia, lanciandogli uno sguardo severo.
    «Davvero non c’è qualcosa che ti preoccupa di più? Secondo te da quanto va avanti la situazione? Perché non si è preso alcun provvedimento?»
    Asuma rimase in silenzio.
    «Kambei» si rivolse a lui l’altro, fremente di rabbia «secondo te, perché l’Hokage non fa niente?»
    «Come dovrei fare, Saku?»
    «Sai essere persuasivo. La prima volta che ci incontrammo volevo farti a pezzi. Due parole, ed ero disposto a seguirti ovunque.»
    «E’ un Uchiha, Sakuragi. Un Uchiha! Non sovrastimare le mie capacità, i miei trucchi potrebbero rivoltarmisi contro. Stiamo rischiando di buttare via quanto sappiamo, quando potremmo sempre scoprire tutto, poco a poco…»
    Sakuragi gli si avvicinò, sorridendo.
    «“Stiamo rischiando”? Credo che tu abbia già preso una decisione a riguardo, Asuma.»

    -

    La figura in nero superò l’androne a passo contenuto, ben attento a non attirare l’attenzione.
    «Dannazione, Sakuragi: farai meglio a muovere il culo e andate al più presto da Tahaku…»
    Non c’erano moltissime figure a quell’ora della notte al pian terreno del palazzo dell’Hokage, ma l’edificio non era di certo sguarnito. Avrebbe voluto usare l’Iwagakure no Jutsu per muoversi in silenzio, non visto, ma dato che la sua era una missione di spionaggio, e che presupponeva di farlo mantenendo un’identità falsa ma coerente, dimostrare che “Kambei” esisteva era il modo migliore. Certo, alla lunga si sarebbe scoperto l’inganno, ma al momento il travestimento aveva una sua finalità.
    «Kambei Mitsurugi. Sono di ritorno da una missione, dovrei vedere l’Hokage.»
    Il burocrate annoiato dall’altra parte della scrivania lo fissò per mezzo secondo, infastidito. Chinò il capo in cerca dei documenti relativi al suo incarico.
    «Mitsurugi, Mitsurugi…» ripeté in cerca di scartoffie. Asuma si schiarì la voce.
    «E’ urgente» asserì con tono delicato, sbalordendo l’interlocutore fino a fargli cambiare completamente atteggiamento.
    «P-può andare.»
    Il mukenin si allontanò con calma dalla scrivania, salendo le scale per i piani superiori. Tese le orecchie ad ogni svolta di corridoio, cercando di incontrare meno gente possibile. Non voleva troppa pubblicità, ed era meglio evitare di incorrere in qualche altro conoscente di Kambei Mitsurugi.
    “Eccomi, ultimo piano, ultima porta. Capolinea.” Prese un profondo respiro, a cui seguirono tre colpi di nocca alla spessa porta che lo divideva dall’ufficio dell’Hokage. Aspettò davanti alla porta per un paio di minuti buoni. Nessuna risposta.
    “E’ notte, ma non così tardi…” si disse, bussando ancora, ritrovandosi nuovamente a pazientare per nulla. L’unica cosa che udì fu, d’un tratto, un lungo gemito soffocato dall’altra parte della stanza. Le mura e quella porta non gli permettevano d’udire altro. Era pronto a portare un orecchio alla porta per cercare di capire cosa stava succedendo ma non ve ne fu bisogno. La porta si spalancò in un secondo, costringendo Asuma a ritrarsi per evitare di fracassarsi il naso contro la solida superficie. Ciò che ne uscì fu una ragazza, il capo chinato nascosto dai lunghi capelli biondo platino, le mani raccolte a coprire le proprie nudità. La figura femminile saettò per il corridoio e sparì dalla vista dell’uomo in pochi istanti, lasciandolo ammutolito, fino a quando una risata familiare dall’interno della stanza di fronte a lui non attirò la sua attenzione.
    «Scusa per l’attesa, ragazzo, ma ero a metà ormai…non potevo non terminare.»
    Uchiha Hayter era in piedi con le mani ai fianchi, tronfio, sulla sua scrivania esponendo alla luce della luna e agli occhi del visitatore la sua virilità. Asuma restò interdetto, tanto da non fiatare per qualche secondo, sapendo che qualsiasi frase di senso compiuto avesse tentato d’esprimere si sarebbe tradotta invece in un indecifrabile balbettio. L’Hokage sembrava pienamente soddisfatto dalla sua reazione, e continuò a ridere sguaiatamente una volta sceso dall’ampio tavolo mettendosi alla ricerca dei suoi pantaloni. C’era qualcosa in quella risata che gli faceva gelare il sangue.
    Asuma entrò nella stanza, chiudendo la porta dietro di se.
    «Hokage-sama» si sforzò infine di proferire, nascondendo l’imbarazzo:
    «Ho terminato la missione da lei assegnatami. Il covo Mukenin a sud-est di Yamamichi è stato distrutto.»
    «Oh, certo, hai fatto bene a venire...?»
    «Kambei, signore. Kambei Mitsurugi.»
    L’Uchiha sembrava più interessato ad infilarsi i calzoni che ad ascoltarlo, ma Asuma andò avanti facendo finta di niente.
    «Il rapporto della missione verrà consegnato entro qualche giorno, insieme a tutti i dettagli a riguardo.»
    Hayter appoggiò il sedere sulla sua lussuosa poltrona, e i piedi sul mobile dissacrato poco prima, rivolgendogli finalmente la parola con tono annoiato.
    «E sei ancora qui perché….?»
    «Perché c’è qualcosa che vorrei chiederle, signore-»
    Il giovane leader della Foglia sembrò risvegliarsi d’improvviso, animato da un largo sorriso.
    «Si chiama Yaeko. Lavora all’accademia. Sai, il genere “maestrina”. Una Kunoichi fallita praticamente… ma dio sa se sa come prendersi cura di un Ninja» esclamò, lasciandosi andare ad un ennesimo scatto d’ilarità. Era ovvio cosa intendesse, e come avesse frainteso la richiesta, ma tanto per rendere il suo personaggio più innocuo agli occhi dell’altro tanto valeva giocarsi la carta dell’ingenuità. Quel comportamento però, era stranamente disturbante.
    «Prego?» fu la risposta di Kambei al superiore, condita da un espressione confusa.
    «Ah, non era questo che volevi sapere? Ops, colpa mia. Allora chiedi pure, e poi leva le tende. La gente entra ed esce sai? Sei un gran simpaticone ma non posso rimanere tutta la notte con te.»
    “Ora.”
    Il Fiore del deserto impastò il chakra nelle corde vocali, alzò leggermente il tono di voce per farsi ascoltare chiaramente e catalizzare l’attenzione.
    «Sono… turbato, dal comportamento di alcuni miei compagni di questi tempi, signore. Bevono in servizio, fanno uso di forza quando non necessario, e sono un po’ troppo vivaci.»
    Il mukenin trattenne il respirò, cercando di saggiare la reazione dell’uomo di fronte a lui. I suoi occhi non scintillavano di un rosso accesso, ma la sua espressione non sembrava granché cambiata da poco prima. Se aveva mangiato la foglia, era finita.
    «Ne sono a conoscenza» disse l’altro semplicemente, come se stesse dicendo roba da niente.
    «E, quindi, sono sicuro che avrà pensato ad un modo per risolvere la situazione…»
    «No, Kambei. Non c’è n’è alcun bisogno. I giovani d’oggi sono scapestrati, arroganti, credono di poter conquistare il mondo. Insomma, sono come ME. E questa è una qualità che apprezzo.»
    Asuma si ritrovò a sudare freddo d’improvviso. La sensazione di strana familiarità si acuiva, ma non riusciva ancora a coglierla appieno.
    «Hokage-sama, ho assistito coi miei stessi occhi ad una di queste scene. Un onesto lavoratore è stato praticamente derubato e costretto a chiamare il furto "volontario omaggio" per paura delle conseguenze.»
    Hayter gli dedicava uno sguardo sornione, ascoltandolo parlare.
    «Onesto, eh? Un po’ troppo facile parlare di onestà. Vedrai che avrà pur fatto qualcosa di storto. Si sarà scopato una ragazza mettendola incinta, e poi l’avrà lasciata a morire di fame o avrà rubato quando ne aveva l’occasione. Voglio essere onesto con te, ragazzo, perché mi piaci. Ad un altro imbecille che fosse entrato qui avrei dato a bere le solite stronzate ma tu… sono sicuro che meriti di sapere.»
    “Kambei” si strinse nelle spalle.
    «Signore, quegli Shinobi sono effettivamente parte di Konohagakure no Sato?»
    L’uomo davanti a lui rimase in silenzio. Asuma poteva leggergli negli occhi quanto divertente trovasse quella situazione.
    «Lo sono, ora. Il resto non ha importanza, alla fine. Una Grande Nazione ha bisogno di un esercito forte. Se qualche piagnucoloso non è d’accordo può semplicemente sparire. Bisogna pagare per giocare. E’ una lezione che ho imparato presto… ti prendi quello che ti pare.»
    Non fiatò. Aveva già abbastanza certezze per togliersi dai piedi. Fu qualcos’altro però, a farlo rimanere coi piedi incollati al pavimento, incapaci di muoversi: lo sguardo penetrante dell’uomo, duro e affilato come una spada, che sembrava trafiggergli la faccia.
    «Sai, mi viene alla mente un vecchio ricordo. Non troppo vecchio in realtà, a pensarci.»
    L’uomo sghignazzò sonoramente.
    «C’era questo tipo…lo chiamerò Fiorellino per amor di trama. Avresti dovuto vederlo, sicuro di sé, pieno di boria. Me lo sono ritrovato tra le palle due volte, ma finora si è salvato. Una volta osò minacciarmi di morte. Due parole, e potevo sentire l’odore del piscio che gli bagnava i pantaloni. E…»
    Nell’aria vibrò una risata gracchiante, terribile come quella che per tante notti aveva scosso i suoi incubi. La risata di un pazzo.
    «…la parte migliore, e che probabilmente ora mi crede schiattato. Si crede al sicuro
    Asuma era gelido, lottava per non tremare. Una sola parola abbandonò le sue labbra, il tono di voce così basso da poterla scambiare per un imprecazione, in modo del tutto involontario.
    «Dreek.»
    L’Hokage si animò sorpreso, mentre Asuma realizzava il suo errore.
    «Sì. Dreek.»
    “Questo mostro…Hokage?! No, no... no.”
    Asuma alzò lo sguardo, fissando la faccia di Dreek. No, la faccia di Hayter Uchiha. Una tecnica di scambio dei corpi? Quando? Come? No, ormai non aveva più importanza. L’Hokage lo guardava con un espressione cattiva ma fiduciosa. Il suo Genjutsu aveva fatto effetto, e lo Sharingan degli Uchiha non aveva avuto tempo di agire, nemmeno tempo di comprendere. Poteva finire lì quella storia, prima che quel pazzo portasse a più morte di quante il mondo ne meritasse ancora. Uno scatto del polso, e il Kunai nascosto nella manica saettò allo scoperto. Un paio di metri di distanza non erano abbastanza per evitarlo, tantomeno in quelle condizioni.
    La lama si fece strada lungo il cranio di Dreek, in mezzo agli occhi. Finì ancor prima che potesse reagire, non uno spasmo, non una mossa. Solo sangue.
    «Nulla di personale, Dreek.»
    Asuma mosse due passi verso il cadavere, per recuperare la sua arma. Si chinò in avanti, le dita strette attorno all’acciaio gelido della lama, cercando di non sporcarsi di sangue, realizzando solo allora di non aver mai effettivamente nascosto un Kunai nella manica della veste.
    Osservò il cadavere riverso a terra con gli occhi aperti e la bocca spalancata. Così buio.
    Il mukenin aguzzò la vista, credendo di scorgere qualcosa. Luce…rossa? Gli occhi spenti riprendevano colore, il nero sostituito dal rosso.

    «Sorpresa, FIORELLINO
    Asuma si liberò di botto di tutta l’aria contenuta nei polmoni. La testa pulsava così tanto che temeva sarebbe esplosa. L’addome bruciava tanto da fargli credere di avere un tizzone ardente conficcato nel torace. La falsa faccia gli era stata strappata dal viso forzatamente, ma non aveva idea del quando.
    Era al muro, inerme. A pochi centimetri dal suo viso c’era lui, Hayter. No, Dreek.
    «Comodi questi occhi eh, Asuma? Perfino tu che ti credevi tanto bravo coi Genjutsu sei niente davanti a questi! In effetti, ad essere sincero, questa non è che una frazione del loro potenziale. Che ne dici di provare questi giocattolini insieme eh? Soci come ai vecchi tempi!»
    Dreek vedeva l’odio nei suoi occhi. Se c’era qualcuno che aveva odiato di un odio simile a quello che provava per quel pazzo era stato tanto tempo prima da non ricordarselo. Era un fatto però, che non avesse mai odiato nessuno quanto in quel momento.
    «C-come?» chiese Asuma, boccheggiante.
    «Perché mi ha molto stupito veder tornare al villaggio Kambei Mitsurugi, dopo che mi ero tanto premurato di assicurarmi che schiattasse in una missione suicida ad Iwagakure. Che brav’uomo che era, sempre a difendere i cittadini, a mettere in riga i suoi sottoposti… sempre pronto ad ammorbarmi le palle dicendomi cosa devo fare. Tanto per esserne certo ho chiesto un favore a qualche vecchio amico che mi ha confermato di avergli trapassato il cuore con una spada. Immagina quindi la mia sorpresa nel vedere un morto tornare al villaggio e fare finta di niente!»
    Sakurazukamori strinse i denti per la frustrazione.
    «Non fare quella faccia a chi ti fa un regalo. Prima di andare nel paradiso dei fiori di campo, ho qualcosa da farti vedere. Qualcosa che ti piacerà.»
    Le tre tomoe attorno alle pupille iniziarono a deformarsi, spiralizzandosi e fondendosi, andando a formare con il viso sfigurato dal riso folle di Dreek la faccia di un pazzo spiritato. Asuma lo guardò dritto in faccia per ogni istante. Se anche fosse morto lì, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo impaurito o arrendevole. Dreek era malato, pazzo come pochi, e la sua lucida follia lo rendeva per certi versi imprevedibile. Ma per quanto instabile non era completamente partito. Si distraeva come tutti, una volta certo di essere in superiorità. Asuma continuò a fissarlo in viso: doveva catalizzare l’attenzione solo su di esso. Fu un attimo: il braccio che lo teneva bloccato contro il muro perse improvvisamente di forza, e il Fiore del deserto colpì forte sotto la cintola, troppo in basso perché lo Sharingan puntato sulla sua faccia potesse leggere il movimento.
    «A cosa ti servono gli occhi se non puoi guardare?!»
    Alzò indice e medio della mano destra facendo deflagrare tutte le Gokan Sakasou che teneva addosso. La polvere urticante invase la stanza, privando entrambi della vista. Lui poteva farne a meno, dopotutto, ma per Dreek gli occhi erano un’arma vincente, e se non poteva usarli per lui era tutto di guadagnato. Alzò le gambe per correre verso la finestra, e scappare, ma Dreek non demorse. Sentì due braccia avvinghiarsi alle sue gambe e tirarlo giù.
    «Ti sviscererò con le mie mani, ASUMA
    Duellarono sul pavimento per lunghi secondi, scambiandosi colpi ogni qualvolta erano certi di poter colpire. Sentì Dreek sedersi sul suo torace e le sue mani stringersi attorno al suo collo e serrare la presa. Forte, sempre più forte. Sentì la testa venirgli sbattuta contro il pavimento più volte e il sangue colargli tra i capelli. Disperato, fece l’unica cosa che gli veniva in mente: fece saettare la mano destra contro la figura sfocata che torreggiava su di lui. Sentì le dita infilarsi in un secondo in una angusta cavità, umidiccia e viscida. Dreek emise un lungo ululato di dolore ma la sua presa si fece più salda. Asuma tirò con tutte le sue forze, sentendo caldo liquido gocciolargli sul braccio e sul viso.
    STRAP.
    Il peso sul suo torace e la serrata presa sulla sua gola sparirono in un attimo. Dreek agonizzava a terra, lanciando bestemmie a piena voce. Sakurazukamori si rimise in piedi, la testa che girava e pulsava dolorosa, correndo dall’altra parte della stanza mentre gli effetti della Gokan cominciavano a sparire. La porta dell'ufficio venne sfondata con un forte schianto e Asuma sentì alcune paia di piedi precipitarsi all'interno. “Ti ucciderò, Asuma!”, fu l’ultima frase che sentì prima di infrangere i vetri e lanciarsi nel buio. Mentre precipitava, notò che qualunque cosa avesse strappato a Dreek, ce l’aveva ancora in mano. Piccolo, sferico, luminoso.
    Sharingan.

    Grazie a Marian per il post :)
     
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    Conseguenze Inaspettate III

    Fiume di sangue



    Erano passati diversi giorni dopo il suo arrivo nella grotta. Era arrivato in fondo a quella valle e ne aveva trovata un’altra, poi un’altra valle ancora. Il territorio diventava sempre più sterile e freddo, sempre meno acqua e sempre meno cibo. Insieme alle forze stava perdendo anche la speranza. “Ma cosa sto facendo?” Si disse, mentre cadeva a terra. Tutto quel tempo e l'unica cosa che aveva ottenuto era finire a morire in quel posto dimenticato. Non se lo meritava. O almeno non credeva di meritarsi una fine del genere. La polvere si alzò dal terreno mentre il suo corpo inerte lo colpiva con un tonfo. Era così bello restare lì. Calma. Pace. La dolce cura del riposo, l'oblio del sogno. “E poi.... e poi...” No. “Perchè no?” Il richiamo dell'oblio era così dolce, come il canto di una sirena, come la voce suadente di una donna. Voleva lasciarsi cullare. “Cosa cambierebbe?” Sete, fame, le risposte che cercava. Niente aveva più importanza nel posto in cui stava andando. “Solo pochi minuti, poi mi rialzo.”
    Svegliati! “Cosa? Perchè?” Svegliati! L'uomo ricacciò indietro le tenebre che lo avvolgevano e che lo trascinavano fra le braccia della morte. Non era sfuggito a un destino crudele per finire in bocca ad uno ancora più infame. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato; minuti ore, giorni. Ma di una cosa si accorse: il vento era cambiato, e con sé portava il rumore scrosciante dell'acqua, fonte di vita e di sollievo, l'unica speranza di uscire vivo da quel posto. Si alzò seguendo il rumore sempre più forte mentre la vegetazione tornava a rinvigorirsi. Questo significava cibo, oltre che acqua. “Quello....” Trovò un cespuglio a cui erano attaccate delle bacche. Non sapeva se erano velenose, ma non importava, doveva mangiare. Le prese a manciate, infilandosele in bocca, il succo che gli colava dal mento. Alla fine raggiunse un grande torrente che scendeva lungo il fianco delle montagne per attraversare la valle in quel punto. A pieno carico dopo le piogge dei giorni precedenti, uno splendore per i suoi occhi. Vi si gettò dentro felice come un bambino. Si dissetò e si lavò la sporcizia dei giorni precedenti e alla fine si stese sui ciottoli a riva, con il sorriso sul volto. Ancora una volta fu il vento ad avvertirlo. Questa volta di un pericolo.
    Voci. “Meglio non farsi vedere.” Si alzò in fretta e si spostò in una macchia di arbusti piuttosto fitta, un buon posto per nascondersi. Supino sul terreno, si appostò in modo da avere una visuale piuttosto buona sul torrente, senza però esporsi troppo. “Forse passeranno senza fermarsi.” Si disse speranzoso.
    «....sei un idiota, Kai! Ecco perché comando io.» Disse uno dei due uomini entrato nel suo campo visivo. Erano molto simili d'aspetto, stessi capelli neri, stesso fisico.
    «Comandi tu solo perché sei il più vecchio, fratello.»
    «Fottiti, Kai, questo è quello che ti dici la sera prima di andare a dormire. La verità è che se siamo ancora vivi lo devi solo a me.» Replicò con una risata il primo.
    «Può darsi.» Concluse scettico il secondo.
    I due avevano l'aspetto dei Ninja e, a giudicare dalle brutte condizioni in cui erano messi i loro abiti, dovevano avere passato brutti momenti.
    «E' una settimana che scappiamo, fratello.» Riprese “l'idiota”, fermatosi al torrente per bere e lavarsi il volto congestionato. «Dovevamo fermarci a combattere.»
    «Ed ecco perché sono io il capo. Non avrebbero mandato degli sprovveduti nelle terre di nessuno. Se ci prendono ci fanno a pezzi.» Anche da quella distanza era evidente quanto fosse grande il suo disappunto. «E continuando con i se: se mi avessi dato retta dall'inizio, invece di massacrare quella gente, a quest'ora ci staremmo godendo il frutto delle scorrerie, con vino e puttane.»
    L'uomo nascosto fra i cespugli decise di aver sentito abbastanza, quelle erano persone pericolose, doveva fuggire immediatamente, era pericolosamente vicino e quelli sembravano avere intenzione di accamparsi lì per un po'. Doveva rischiare e tornare indietro. Affrontare di nuovo l'assenza d'acqua senza neanche una borraccia era un pensiero terribile, ma non poteva restarsene lì.
    La fretta, la paura e la sfortuna gli costarono un errore fatale. Un ramo si spezzò sotto il suo peso e nel sussulto causato dallo spavento urtò una pianta che ondeggiò pericolosamente. Sperò che la cosa passasse inosservata, ma non fu così.
    «Chi è là?» Chiese con voce tonante e agitata l'idiota. Ma lui rimase zitto.
    «Controlla.» Disse il primo uomo, anche lui guardava nella sua direzione con preoccupazione.
    «Uno solo. In mezzo ai cespugli.» Non aveva idea di come facesse a sapere quelle cose, ma sapeva che doveva scappare. Con tutta l'energia che aveva si alzò in piedi e iniziò a correre nella stessa direzione da cui era arrivato, ma fu raggiunto quasi subito. Venne afferrato per le spalle, spinto e gettato a terra come un sacco di patate. Non era la prima volta che accadeva in quell'assurdo viaggio. Era stanco, stanco di tutta quella sofferenza. Tutto per delle risposte che tardavano ad arrivare, che non sarebbero mai arrivate per quanto ne sapeva. Il primo pugno lo raggiunse allo stomaco.
    «Chi cazzo sei, straccione?» L'idiota era sopra di lui, il volto contratto dalla rabbia e dalla crudeltà.
    «Io... chi sono...» Riuscì a balbettare incoerentemente lui. “Chi sono?”
    «Non hai sentito, sorcio?» Le urla erano accompagnate da altri maltrattamenti, due calci consecutivi al costato, che lo fecero rotolare a faccia in giù. «Ti ho chiesto chi sei! Straccione del cazzo!» Il dolore gli assalì il cervello, le lacrime salirono agli occhi, la rabbia gli artigliò il cuore. “Chi sono? Chi sono?” Le domande iniziarono a rimbalzargli nella mente all'infinito, amplificate dall'onda emotiva che lo travolgeva e lo inondava con incalzante furore.
    «Smettila. È solo un disperato, non lo vedi?» Disse il primo sconosciuto, nel tentativo di fermare il pestaggio.
    «Basta, fratello: mi sono stancato della tua mollaggine, questo lo ammazzo. Così la facciamo finita.» Il pugno che seguì gli avrebbe frantumato la testa. Se si fosse trovata ancora lì.
    Il suo corpo reagì da solo, con naturalezza, e con rabbia. In una frazione di secondo era in piedi, con la mano saldamente serrata attorno al polso della mano che voleva ucciderlo. Tanto saldamente che sentì le ossa rompersi sotto la sua stretta mentre l’uomo si piegava davanti a lui, spezzato dal dolore prima che dalla forza della sua presa.
    «Chi sono?» Chiese all'oscurità che si impadronì di lui.


    Quando si risvegliò era inginocchiato sulla riva del torrente. I vestiti che indossava erano inondati di sangue, le sue mani sozze del liquido carminio, denso e scuro. Specchiandosi nell'acqua cristallina constatò che il viso era nelle stesse condizioni. Tremava, come quando si riprendeva dagli attacchi di convulsioni e come in tali occasioni si sentiva svuotato, privo di energie. Si denudò, strappandosi letteralmente i vestiti di dosso: era scosso, confuso e al limite di un esaurimento nervoso. Si lavò di nuovo evitando di alzare lo sguardo, perché voleva solo togliersi di dosso tutto quel sangue ma non osava guardare. Quando ebbe finito lo spettacolo che lo aspettava sulla riva era terribile. Due pozze di sangue si allargavano attorno a quello che rimaneva dei due fratelli che lo avevano bloccato. Il volto dei due era irriconoscibile, un arto giaceva solitario a qualche metro di distanza dal proprietario. La cosa che lo sconcertò di più era il pensiero della necessità di recuperare e lavare dai due cadaveri i vestiti, per sostituire i suoi stracci. Gli sarebbe toccato un altro bagno, un bagno di sangue.
    Cadde in ginocchio, nudo e senza difese davanti all'orrore. Si guardò ancora le mani, che erano di nuovo sozze di sangue. Quando se le era sporcate?
    La testa tornò a riempirsi di immagini, decine, centinaia di immagini di lotta e sangue. Vedeva le sue mani togliere innumerevoli vite di sconosciuti, farli a pezzi, sventrarli. La realtà e i sogni si sovrapposero, mentre la testa tenuta fra le mani sudice veniva bombardata con l'atrocità di ciò che aveva fatto. Voleva fermare quella crudele tortura a cui lo costringeva la sua stessa mente, ma semplicemente non ci riusciva: chiudere gli occhi serviva solo a rendere più vivide le stilettate che lo colpivano di continuo.
    Poi tutto finì, lasciandolo con le lacrime agli occhi e l'ossessione del ricordo. «Chi sono?» Chiese a bassa voce. «Cosa sono?»
    Grazie a Red per il post.
     
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27 replies since 31/3/2012, 10:53   2872 views
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