Casa Maemi Takahashi

Periferia di Kirigakure no Sato

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    Casa Takahashi


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    La dimora Takahashi si trova nella parte più estrema della periferia Est di Kirigakure no Sato, in una zona in cui il verde e il rumore di cicale fanno da sfondo ad un tranquillo ambiente bucolico. Si tratta di una casa in stile tradizionale costruita con legno, paglia, carta e bambù, situata alla fine di una viuzza in terra battuta che accoglie diverse altre abitazioni in stile campagnolo. Con circa centodieci metri quadri di misura, presenta una piantina ad L ed un giardino non recintato sul retro che la chiude in un rettangolo immaginario. Si tratta di una struttura di vecchia data, venduta alla famiglia come semi-fatiscente e rovinata. Una serie di lavori apportati da Yoshito ha donato un aspetto migliore alla tenuta, tuttavia non è riuscito comunque a dissipare quell'impressione di vecchio e logoro in grado di far storcere il naso a chiunque vi passi vicino.


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    La porta d'ingresso scorrevole si apre sul genkan, l'anticamera in cui bisogna togliersi le scarpe e indossare le pantofole, rigorosamente fornite dai padroni di casa. Il pavimento in questo caso è in pietra grigia naturale, mentre le pantofole sono su un gradino in legno e sopraelevato. Questo ingresso è arredato sulla sinistra da un modesto getabako, l'armadietto apposito dove si possono deporre le scarpe, e sopra di esso è stato appesa una spessa corda in canapa e paglia di riso, da cui cascano una manciata di talismani in carta realizzati scrivendo il nome di diversi kami; sulla destra è presente un portaombrelli e un armadio a due ante utilizzato per i cappotti e dell'equipaggiamento extra di Maemi. Una volta superato il genkan la casa si presenta con un bivio: sul davanti la struttura prosegue attraverso un corridoio lungo una decina di metri, con una serie di porte sulla sinistra che conducono alle camere e all'unico bagno dell'abitazione. La parte destra è invece chiusa da un'imponente fusuma, una porta scorrevole con anima in legno e pannelli in carta di riso, che conduce dirattamente al salone con cucina a vista e un pavimento composto interamente da tatami in paglia.


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    L'interno della sala è arredato nel classico stile tradizionale, dunque semplice ed essenziale; un piccolo gradino divide a metà l'intera stanza, una linea di demarcazione quasi invisibile che separa la zona della cucina da quella del soggiorno. All'entrata si viene presentati con un kotatsu, un piccolo tavolo quadrato sul quale poggia una coperta molto ampia, circondato da ogni lato con dei soffici cuscini per chi desidera sedersi a terra; dietro, sulla parete destra, è situato il tokonoma, una piccola alcova con pavimento sopraelevato, a cui è stato appeso un kakemono, ossio uno scritto calligrafo, e un decoratissimo kamidana, l'altarino che ha la struttura di un santuario shinto in miniatura.
    Sul fondo della sala si passa alla zona cucina molto essenziale, ma dall'evidente stato logoro. Sulla parte destra è disposto un lungo tavolo in legno, semplice e artigianale, con quattro sedie costruite da Yoshito in persona; nella stessa linea d'aria, ma attaccato al muro sotto la finestra, vi è un tavolino basso su cui sono state disposte diverse fotografie riguardanti la famiglia e la vecchia compagnia teatrale. Sulla parte sinistra della stanza, invece, si presenta la zona cucina: una serie di banconi rovinati partono dal muro sinistro per creare una penisola, mentre attaccata all'estremità è visibile tutta una trafila di banconi ed elettrodomestici quali il frigo, il forno eccetera.
    La lunga parete della stanza che da al giardino è composta quasi totalmente da shoji, porte scorrevoli con una fitta bacchettatura in legno che danno direttamente all'engawa. D'estate questi pannelli vengono rimossi così da permettere una maggiore circolazione dell'aria, mentre d'inverno il rivestimento in carta viene sostituito con quello in tessuto, in modo da contenere il calore all'interno.


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    La camera di Maemi misura nove metri quadri, ha una forma rettangolare ed è collegata al corridoio tramite una larga porta scorrevole. La ragazzina ce la mette sempre tutta per rendere la sua stanza il più ordinata possibile, ma le misure ridotte non permettono di contenere tutte le sue cose senza creare una sensazione di caos. Il futon, in morbido cotone, viene sistemato ogni notte al centro della stanza per poi essere riarrotolato di mattina e riposto dentro il grande armadio a due ante, che presenta un lungo specchio verticale appiccicato ad una delle parti interne. Un comò è sistemato di fianco alla porta, solitamente tenuto spoglio con solo un contenitore portagioie dove Maemi deposita i suoi orecchini. Il resto della stanza risulta un trionfo di libri, pergamene e raccoglitori, riposti alla bell'e meglio in ogni angolo e spazio disponibile dei numerosi ripiani della stanza. Per questo motivo le pareti grezze della stanza sono solitamente coperte dai mobili, unica eccezzione uno spazietto affianco alla finestra dove la ragazza ha appeso una foto incorniciata raffigurante la cerimonia di diploma dell'Accademia.


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    Al contrario della stanza di Maemi, la camera di Yoshito e Reiko è sempre tenuta molto ordinata e spoglia, riuscendo a dare un senso di spazio nonostante i dodici metri quadri di grandezza. Una porta scorrevole la separa dall I due coniugi si sono divisi la stanza in una metà immaginaria, dove la parte destra è destinata a Reiko, mentre la sinistra a Yoshito.
    Il bagno, al contrario della maggior parte delle case tradizionali, presenta un unico vano, senza dunque la zona della vasca ma una semplicissima doccia - solitamente fredda.


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    Intorno agli ambienti della casa è posizionato l’engawa, un corridoio coperto da cui si ha accesso al giardino esterno. Essendo al momento della vendita già un terreno ben predisposto, Reiko si è impegnata per fruttarci un piccolo orto casalingo, da cui crescono alcune verdure da portare a tavolo, o da favorire ai vicini come merce di scambio. La donna ne è la principale responsabile, e si è premurata pure di legare un filo in plastica dal muro della casa all'albero di biancospino, che usa apposta per stendere i panni. Non essendo recintato, il giardino rischia di subire incursoni da animali selvatici o furbetti, problema che tuttavia si è ammorbidito con l'arrivo di Sumo, che ne ha fatto di quella zona il suo regno indiscusso.


    Famiglia Takahashi



    Yoshito Takahashi
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    Yoshito è un uomo di media altezza ma con un peso eccessivo che si concentra soprattutto sulla pancia. Ha i capelli castani brizzolati, degli spessi baffi e un accenno di barba appuntita; sugli occhi verdi porta una montatura squadrata e sottile. Un uomo dall'ammirevole capacità artigianali, fa del suo motto il "saper arrangiarsi". Adora lavorare il metallo, il vetro ma soprattutto il legno; il suo sogno è infatti quello di possedere una bottega di falegnameria, anche se data la sua età ha ben poche speranze di coronarlo.
    Dotato di una buona intelligenza, è in grado di osservare e rispondere a situazioni complesse in maniera ottimale. Difficilmente perde la calma, e preferisce risolvere le divergenze con una discussione pacifica. Il suo punto forte, ma allo stesso tempo debole, è la grande lealtà e amore che prova per la propria famiglia; vede in Maemi la loro speranza, ed è disposto a tutto pur di renderla una persona in grado di realizzare la propria felicità.

    Reiko Takahashi
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    Reiko è una donna sottile, che spicca per la sua altezza sopra la media; la tinta castana sui capelli serve a corpire il biancore della vecchiaia, presentatasi abbastanza precocemente già da diversi anni. La pelle risulta raschiata, quasi ruvida, con delle runghe non troppo accennate che solcano il volto, concentrandosi soprattutto sul contorno occhi. I capelli, lisci e sottili, vengono sempre tenuti legato sopra la nuca da un fermaglio vecchissimo, appartenuto alla madre di Reiko e venuto in suo possesso alla sua morte. Possiede piccoli occhi color fango, con folte ciglia che danno un particolare tocco femminile. In passato era una donna molto bella, ma sfiorita da una vecchiaia che non è stata particolarmente gentile nei suoi confronti. Reiko è una donna che combatte con un forte senso di insoddisfazione, avendo ottenuto dalla vita ben pochi successi degni di nota. Il suo premio più prezioso è proprio Maemi, su cui ha sempre riposto molte speranze di riscatto per tutte le ambizioni che lei stessa non è riuscita a raggiungere.

    Sumo
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    Trattasi di un purosangue Akita, Sumo è un giovane cane dal corpo ben proporzionato, con una testa dalla grandezza degna di nota, fronte ampia e orecchie con la punta arrotondata. Gli occhi sono piccoli, scuri e profondi, e le labbra che nascondono dei denti sani e forti. Possiede una bellissima pelliccia rossa, spessa e a doppio strato: un manto esterno più lungo e ruvido e un sotto-pelo folto e soffice. La grossa coda arrotolata sul dorso è abituata a scondinzolare spesso, rivelando dunque un carattero mansueto e ubbidiente. Maemi si è presa carico di addestrarlo a dovere fin dalle prime settimane di età, con il compito principale di difendere la casa da eventuali intrusi e proteggere il giardino da animali selvatici. È molto affezionato ai membri della famiglia, anche se risponde solamente ai comandi di Maemi, e non esiterà a difenderli in caso di pericolo.

    Edited by Skipio - 9/3/2024, 15:09
     
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    «Parlato Reiko», «Parlato Momoko», «Parlato Altri».


    Frammenti di Memoria
    Il sorriso della verità



    «Reiko-san… ho tanta paura...»
    «Su, su, vedrai che non è niente»
    Una donna, col volto imperlato di sudore, guardava terrorizzata la sua collega. Aveva il respiro affannoso e si teneva stretta al lettino su cui l’avevano fatta coricare. Aveva dei bei capelli biondi, tenuti fermi da una coda laterale, e gli occhi azzurri passavano velocemente da una parte all’altra. Sembrava un animale in gabbia.
    Accanto, una signora molto più grande di lei aveva una mano poggiata sulla sua spalla, cercando di confortarla. Anche lei sembrava spaventata. Il nome di questa donna era Reiko Takahashi. Aveva trentotto anni, dei capelli corti color fango che faticavano a toccarle le spalle. Aveva uno sguardo stanco, quasi abbattuto, e accarezzava la spalla dell’altra donna come un automa.
    La giovane allettata si chiamava invece Momoko Kokawa. Era molto più giovane, sui venticinque anni, graziata di una notevole bellezza. Le due donne non avrebbero potuto avere nulla in comune, e tutti, a colpo d’occhio, si sarebbero chiesti che cavolo ci facevano insieme. Ebbene, Reiko e Momoko non erano altro che colleghe; lavoravano per una compagnia teatrale, di quelle che sono in perenne viaggio per potersi guadagnare da vivere, che campavano grazie a benefattori che li ingaggiavano per i loro spettacoli. Reiko era ormai un’esperta nella conoscenza di svariati strumenti, indispensabili per accompagnare ogni recita. Momoko, d’altro canto, si era unita da solo un paio d’anni, dopo essersi sposata con “l’organizzatore” - così adoravano chiamarlo - del gruppo. Era tuttavia una discreta cantante e attrice, con tanta voglia di imparare.
    Certo, in quel momento tutt’altro che allegro le donne non si trovavano in un posto a loro familiare. Sia perché si trovavano fuori da Kiri, il loro paese, sia perché si trovavano in un ospedale. La giovane allettata, Momoko, aveva perso sangue.
    «E se… e se…»
    «Shh» cercò di tranquillizzarla Reiko, senza smettere di accarezzarle la spalla. Aveva tuttavia uno sguardo perso nel vuoto, e la bocca una linea sottile che tradiva una profonda preoccupazione. «Sono sicura che tuo marito sarà qua da un momento...»
    Una porta si aprì, tagliando a metà la frase della donna. La persona sulla soglia, però, non era il marito. Era una donna bassa e cicciottella, con dei grandi occhiali e un taglio a caschetto. Momoko fece scattare i gomiti per alzare il busto, come a volersi sporgere verso la nuova arrivata. Aveva gli occhi implorante.
    «Dottoressa, il mio bambino...»
    «Il tuo bambino sta bene».
    Quella frase, detta con tono molto dolce, ebbe un effetto incredibile: Momoko ebbe un gemito di sollievo, lasciò andare i gomiti e la testa ricadde sul cuscino. Sembrava quasi che fosse sfinita dalla tensione accumulata. Si portò entrambe le mani alla bocca, e sembrò quasi sul punto di piangere.
    Accanto a lei, la mano di Reiko si era immobilizzata; aveva tratto un flebile sospiro di sollievo, e chiuso gli occhi senza riaprirli per un po’. Dentro il petto sembrava essersi liberato un enorme macigno. Era stato un tormento quando, poche ore prima, lei e la sua collega si erano dirette per uno dei rari giro di piacere per la città; avevano camminato per un po’, ma Momoko diceva di essere in forza. Reiko le aveva creduto, anche perché essendo solo alla decima settimana la pancia praticamente non si vedeva, e non dava fastidio. A un certo punto, però, la giovane attrice aveva accusato dei lievi crampi al basso ventre, e, dopo un controllo in bagno, aveva notato delle tracce di sangue. Tutte e due si erano subito precipitate in ospedale, credendo nel peggio.
    Reiko soprattutto non si era aspettata la propria reazione: era terrorizzata, come se quel bambino fosse un suo nipote… o figlio suo. Per quanto la perdita di un bambino fosse una tragedia, conosceva Momoko da poco, eppure l’idea che quel piccolo scricciolo nella sua pancia potesse essere morto l’aveva quasi portata alle lacrime.
    Era strana in quel periodo, e non era l’unica ad averlo notato. Yoshito, suo marito, era stato il primo ad averlo visto, e l’unico a parlarle. Da quando Momoko aveva annunciato la sua gravidanza, Reiko era cambiata. Quel bambino non ancora nato, per lei, stava diventando una costante nella sua mente. Il primo pensiero della giornata era per Momoko, si premurava che mangiasse bene, che non facesse sforzi eccessivi e che ogni necessità venisse esaudita. Prima di addormentarsi, rigirandosi nelle coperte, si domandava come sarebbe stato una volta nato, se era maschio o femmina, a chi sarebbe somigliato… tutte cose che non erano normali, non per lei. Questa ossessione la stava trasformando, convincendola a mangiare meno, facendola diventare più irritabile, irragionevole anche con gli altri. Sembrava che non capissero, che nessuno capisse quello che passava, perché sebbene fosse sposata da quando era ancora più giovane di Momoko, quello che le mancava tuttora era proprio… era proprio…
    Reiko abbassò la testa, fissando la mano ormai rilassata della collega adagiata sul lettino. La dottoressa si era avvicinata e stava parlando con la sua paziente, ma Reiko non riusciva proprio a sentirla. Non sentiva nulla. Le sue orecchie erano come ovattate, e il suo respiro inziava a farsi sempre più corto. Alzò lo sguardo, e vide che nessuno stava badando a lei. «Io… esco un attimo, scusatemi» disse, con voce un poco rotta.
    Le due donne si girarono subito verso di lei. Momoko sembrava sorpresa. «Oh, sì, certo, scusami tanto per tutto, Reiko-san, ti ho fatto stare tanto in pena...»
    «No, non c’è problema» rispose sbrigativamente la maggiore, precipitandosi quasi verso l’uscita. Qualcosa dentro di lei le imponeva di correre, di scappare, quella stanza stava diventando così pesante e soffocante…
    Il corridoio le sembrava un labirinto, non tanto perché era lungo e intricato quanto perché non sapeva dove stava andando, eppure continuava a camminare. Percorreva il corridoio veloce, come se qualcuno la stesse inseguendo, come se volesse scappare da qualcosa che però non l’abbandonava mai. Non aveva idea se fossero passati minuti, ore o anche solo secondi da quando aveva lasciato lo stanzino con la collega, e non sapeva nemmeno quanto aveva camminato.
    Quando capì, alla fine, perché si sentiva così male, perché le sembrava di essere intrappolata nella sua testa, dovette fermarsi e quasi arrancare verso una delle tante seggiole lasciate nei corridoi. Vi si poggiò con tutto il peso, tenendosi al muro senza forze. Guardò giù, e si sorprese di vedere che la sua vista si stava appannando dalle lacrime, tanto che ormai vedeva solo forme indistinte di colori. Chiuse gli occhi, e grosse lacrime caddero sulla soffice imbottitura della seggiola. Si portò le mani agli occhi, nascondendo la sua debolezza alla vista del mondo. Sentì un singhiozzo scuoterle il corpo, e le spalle incurvarsi sotto un peso invisibile.
    Era stata una brava figlia da giovane, una buona sorella e una moglie affettuosa. Perché il destino non le aveva concesso quello per cui più di tutti agognava? Non riusciva a capire come mai tanta cattiveria nell’infliggerle questa punizione, a lei, che sarebbe stata una madre meravigliosa.
    E invece, nonostante tanti anni di felice matrimonio, nessun figlio era arrivato. Reiko non riusciva tuttavia a incolpare il marito, perché semplicemente non poteva perderlo; e così, la colpa di questo tormento, aveva deciso, doveva averla lei.
    Non sapendo che fare, rimase lì, ferma seduta su quella sedia ad attendere che le lacrime si prosciugassero. Ne aveva già versate tante, per quello stesso motivo, e ogni volta che credeva di averle versate tutto, ecco che si ripresentavano a darle torto**. Non sapeva più che fare, avrebbe tanto voluto darsi pace e accettare il suo fato, eppure… non ci riusciva. Semplicemente non lo accettava.
    E fu lì, in un momento imprecisato, che si levò un leggero pianto, un vagito disperato di qualcuno lontano. Reiko alzò d'istinto la testa, gli occhi ancora vitrei dalle lacrime, ma la coscienza vigile. Presa da un'improvvisa vampata di energia, riuscì a rialzarsi e camminare, brancolando verso quel suono. Seguí quel lamento infantile come un cieco seguiva la sua guida, e, in pochi secondi arrivò davanti ad una grande parete, con la metà superiore totalmente in vetro. Dall'altro lato, c'erano una decina di culle, poste tutte in riga, con dentro dei piccoli e tenerissimi neonati. Un'infermiera, in fondo stava cercando di calmare uno dei piccoli, che continuava a strillare.
    A Reiko si mozzò il fiato in gola. Poggiò una mano sul vetro, come se volesse oltrepassare quel confine, e si sentì quasi le lacrime tornare. Ogni infante aveva sopra la culla un cartellino giallo con su scritto il nome, e sembrava che quelli più distanti fossero gli ultimi arrivati, mentre quelli in prima linea erano i più grandi. Solo in un secondo momento si accorse che i bimbi in prima fila non avevano un nome. Erano i bambini lasciati orfani, oppure abbandonati. Non era inusuale, specie a Mitsu, che le madri abbandonassero i propri figli davanti ad un ospedale.
    Reiko li guardò tutti, e lo sguardo si fissò sulla culla davanti a sé: avvolta in una copertina rosa, una piccina di almeno due mesi cercava disperatamente di infilarsi un piedino in bocca. Aveva gli occhi spalancati, di un colore grigio da neonato, e una peluria rossiccia sulla nuca. La donna sentiva di avere gli occhi incollati a quella figura, come se una calamita le impedisse di spostare lo sguardo. All’improvviso, la bimba sembrò accorgersi di lei; lasciò perdere il piede e la guardò. I due sguardi, così diversi e tanti distanti di età, si incrociarono in un attimo che sembrò eterno. Poi, come a spezzare l’incantesimo che li teneva legate, la bambina fece un sorriso gorgogliante.
    Il cuore di Reiko si sciolse, e capì di essere perduta.

    Edited by Skipio - 21/1/2022, 13:48
     
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    «Parlato», «Parlato Yoshito»


    Frammenti di Memoria
    Un abaco e un passo di danza



    Il signor Yoshito Takahashi era un uomo corpulento, con mani grandi che custodivano una forza inaspettata; aveva tanti capelli e una folta barba di color cioccolato. Diverse rughe gli solcavano il volto, e tuttavia gli occhi verdi dimostravano una vitalità insolita per un uomo sui quarantasei anni.
    In quel preciso momento, l’uomo stava all’aperto, nel privato spiazzo erboso appartenente alla locanda dove alloggiava insieme alla famiglia e ai colleghi. La compagnia, da circa una settimana, si era fermata a Kiri. Kiri, la capitale del Paese dell’Acqua, la casa del Mizukage e di tutti i ninja. Era indubbiamente la città più grande del paese, eppure era raro che si fermassero più di un mesetto. L’arte e lo spettacolo non sembravano troppo apprezzati, lì, e ogni volta che tornavano sembrava sempre più difficile trovare benefattori e enti pubbliche che li finanziassero. La cosa più bella di quando si fermavano a Kiri era proprio il tempo libero: ne avevano parecchio, e questo permetteva al grande omaccione di dedicarsi ai suoi hobby. Quella mattina, si stava dedicando ad intagliatura del legno. Aveva già deciso cosa avrebbe fatto, e non era nulla di eccessivamente complicato.
    Questa volta, rispetto agli altri anni, però, c’era una piccola e rossa novità: ai suoi piedi, ridacchiava una bambinetta di soli diciotto mesi, che si divertiva ad aggrapparsi alle ginocchia del padre come se fosse una giostra. Yoshito cercava con grande pazienza di continuare il suo lavoro attuale, ma quella piccola pulce, con i suoi continui strattoni e pizzicotti, lo stava mettendo a dura prova.
    «Maemi» la avvertì Yohito all’ennesimo giro di giostra. Aveva un tono di voce calmo, eppure non aveva distolto gli occhi dalla piccola asta di legno. Le sue mani stavano abilmente manipolando l’opera ancora in nascita, con il coltello che ruotava abilmente nella mano destra. Sotto di lui, arrivò una risata cristallina.
    L’omaccione si decise a distogliere gli occhi dal suo passatempo e guardare giù: sua figlia lo fissava, con le manine aggrappate ai pantaloni, gli occhi grandi e un sorriso allargato dal divertimento. «Otto-san! Otto-san!» esclamò con voce chiara, facendo un saltino per poi aggrapparsi alle gambe del padre con tutto il peso.
    Yoshito esalò un sospiro rassegnato. Con uno scatto deciso, richiuse il coltello e se lo infilò nella tasca dei pantaloni. Poi si chinò, e raccolse la piccoletta tra le braccia. «Otou-san, tesoro, Otou-san».
    «Otto-san!» esclamò di nuovo lei, ficcandogli le mani su tutto il viso, come se non avesse idea di cosa fosse ma lo volesse esplorare.
    Yoshito sospirò di nuovo, cercando di allontanare il naso delle manine di quella piccola arpia. Per un po’ non disse nulla: si limitò a fissare gli occhietti azzurri di quella creatura che da ormai un anno faceva parte della sua famiglia. Maemi era tutto fuorché una bambina tranquilla, e questo gli era stato chiaro sin dal primo giorno in cui sua moglie l’aveva portata a casa. Prima di tutto, piangeva spesso, e si dimenava sempre dal suo lettino come una prigioniera che tentava disperatamente di evadere dalle carceri. Da quando era arrivata la piccola, Reiko era entrata in una specie di sogno, dove vedeva la realtà sotto un’ottica molto distorta: vedeva la nuova figlioletta come una bambolina tutta da addobbare a principessa, ed elogiava un carattere dolce e mansueto che in realtà non possedeva. Yoshito non capiva come potesse avere tanto salame negli occhi: era come dare del coniglietto a una volpe. Lui, che era rimasto coi piedi per terra, aveva da subito notato quanto Maemi fosse di natura testarda e ribelle, e già si prospettava una vita piena di rogne e grattacapi.
    Con un sospiro sconfitto, l’uomo alzò la mano con l’asticella di legno ancora in fase d’opera. «Riesci a intuire cos’è, Maemi?»
    La piccola fissò quel bastoncino con curioso interesse, e all’improvviso fece scattare le mani per prenderlo. Sembrava che volesse possedere ogni cosa nuova che trovava.
    «Questo» continuò Yoshito, allontanando il legno dalla presa, «sarà tuo, ma non adesso. Devo ancora finirlo».
    «Regalo!» esclamò Maemi, con gli occhioni che si illuminavano. Ancora non conosceva il significato di tutte le parole, ma quella gli era già ben chiara, e sembrava adorarla. «Mio!».
    «Non ora» rispose il padre deciso. «Questo sarà presto un abaco. Lo so che non sai cos’è» disse, notando la faccia confusa della figlia. «Ma ti sarà molto utile per imparare la matematica».
    Maemi si divincolò, e il padre la rimise giù. Subito, la bambina iniziò a fare goffi passi che nella sua mente infantile dovevano assomigliare a una danza. «Io imparo a ballare!»
    «No» disse subito Yoshito, facendosi molto serio. «So cosa ne pensa tua madre, Maemi, ma non imparerai solo a ballare, suonare e cantare».
    «A me piace».
    «Nella vita ti servirà anche altro» rispose lui, alzando l’asticella in mano. «Fare i conti è solo una di queste cose, Maemi. Ricorda bene le mie parole: allenare la mente a pensare è ben più importante di qualunque passo di danza».
    Il faccino rotondo di Maemi sembrò intristirsi; guardò giù ai piedi del padre. Questi vide delusione negli occhi chiari della figlia, ma anche qualcos’altro, qualcosa che gli fece capire che le sue parole avevano attecchito da qualche parte, nella sua giovane mente. Probabilmente alla prossima distrazione il suo bel discorso sarebbe finito nel dimenticatoio, ma forse, con un po’ di speranza e fortuna, le sarebbe rimasto impresso nel profondo, accompagnandola fino alla fine della sua vita. Ammorbidendo la sua espressione in un sorriso, disse: «Su, non preoccuparti di questo, per ora. Continua a giocare».
    Maemi esitò, poi si girò e si rimise seduta, iniziando a strappare i fili d’erba bagnati e a cercare i piccoli insetti. Poco dopo, tornò col sorriso sgargiante come se si fosse dimenticata della conversazione col padre.
    Yoshito riprese il coltello e continuò a intagliare l’asticella di legno che presto sarebbe diventato un abaco. Da qualche parte, nella sua mente, rimase turbato. Sapeva bene cosa voleva fare sua moglie con la figlia, era quello che aveva sempre desiderato: trasformarla in un’immagine migliorata di sé stessa, una giovane donna bella e dal grande talento artistico. Una geisha vera e propria, come lui sapeva che Reiko avrebbe voluto essere, ma che non era mai diventata.
    Con un sospiro, l’uomo si preparò mentalmente: presto avrebbe dovuto affrontare il discorso con lei. Non poteva permetterle di rovinare Maemi per il suo egoismo personale. La piccola non era lei, non lo sarebbe mai stata.
    Yoshito non era limitato dai propri desideri: voleva solo che sua figlia potesse crescere bene, che fosse intelligente e in grado di prendersi cura di sé. Doveva studiare, e lui l’avrebbe aiutata.
    Così, piano piano, continuò a intagliare e poi a montare lo strumento per contare, il suo primo vero alleato in quella guerra che avrebbe riguardato il futuro della persona che, da poco, era diventata la più importante della sua vita.

    Edited by Skipio - 22/6/2020, 11:11
     
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    Ritorno dall'Esame Chuunin
    Atto I: Reiko Takahashi



    L’acqua filtrata cadeva come una pioggia calda; la fronte alzata, gli occhi chiusi e i rossi capelli sciolti che si beavano della bella sensazione di calore, in grado di sciogliere i muscoli e la mente. Maemi si stava rilassando in doccia, cercando di non pensare a nulla, sentendo il cuore regolare e il respiro tranquillo. Non voleva che smettesse. Sarebbe volentieri rimasta lì, ferma e nuda, nel bagno di casa sua, con l’acqua che le pioveva in testa e la teneva al sicuro.
    Si portò le mani ai capelli, permettendo al getto di insinuarsi tra le ciocche; stranamente, sembravano quasi stoppose al tatto. Maemi continuò a lavarli, ma l’acqua che usciva dal doccino iniziava ad assomigliare a degli aghi che le pizzicavano la pelle, e una brutta sensazione si propagò su tutto il corpo. Sentiva improvvisamente gli arti più rigidi, quasi meccanici, mentre si muovevano tra i capelli. Maemi aprì gli occhi di scatto, e caddero subito sulle braccia. Davanti al suo sguardo stupefatto, vide che laddove picchiava l’acqua, la sua pelle mutava, diventando di un legno scuro, con venature e pieghe, liscio e ben modellato. Il cuore iniziò a correre, e le labbra si schiusero per lasciar andare il suo terrore, ma ’aria le si fermò in gola, soffocandola.
    Ormai nel panico, gli occhi blu della kiriana scattarono attorno, cercando un aiuto, un’ancora di salvezza, qualsiasi cosa…
    Il tempo sembrò fermarsi quando, dal vetro reso opaco dal vapore, Maemi vide la propria immagine riflessa. La sua faccia era scomparsa, rimpiazzata da una specie di maschera di legno, con i contorni del viso grottescamente disegnati, la bocca larga e gli occhi minuscoli, i capelli marroni scuri e stopposi che parevano un cespuglio di paglia.
    Tum-tum-tum-tum. Il cuore sembrava un tamburo impazzito, e le pareti di vetro reagirono al battito, tremando come in un terremoto. Il mondo intorno a lei si scosse, riempiendola di un terrore primordiale. Alzò le braccia per toccare quella maschera, per toglierla, gettarla via, e le sue orecchie udirono uno schiocco legnoso provenire dai suoi arti, un suono orribile che si ripeteva e ripeteva all’infinito. “No, no, no, no…”
    D’un tratto, i vetri della doccia non ressero più la tensione, e si spaccarono in una miriade di pezzi che investirono il corpo nudo della ragazzina, graffiandola, ferendola, tagliandola…
    La mente di Maemi parve esplodere, poi si svegliò.
    Gli occhi si spalancarono, e le braccia si divincolarono tra le coperte per potersi mettere seduta; aveva la pelle d’oca e il respiro affannoso. Ci mise qualche secondo per realizzare di essere al sicuro, nel suo paese, in casa sua, nel suo letto. Era notte fonda, e il buio annullava tutte le forme visibile nella camera.
    La mano di Maemi andò subito all’interruttore, e la luce illuminò tutto. Con un’angoscia che solo i brutti sogni riuscivano a instillare, la ragazzina scattò in piedi, precipitandosi verso lo specchio.
    Ad accoglierla, c’era la figura di una ragazzina sconvolta, con la frangia rossa appiccicata alla fronte, il viso rosso e accaldato, le pupille dilatate. Aveva una vestaglia da notte, i piedi nudi e i capelli tutti arruffati di chi aveva avuto un sonno agitato. Gli occhi blu scuro, incastonati in un visino imperlato di sudore, erano spaventati, impauriti, di una bambina che non voleva fare altro che scappare.
    La ragazzina rimase lì, a fissare la sua immagine, mentre la lucidità tornava a farsi spazio nella sua mente. I contorni del viso dolce si indurirono, mentre la mascella si contraeva e gli occhi si riempirono di furia. La mano sinistra si strinse a pugno, e per un attimo sembrò sul punto di spaccare il vetro a forza di pugni.
    Richiuse violentemente l’armadio con lo specchio, e a passo pesante tornò a letto. Non spense la luce, e non tornò a dormire. La sua mente rimase vigile, sveglia, che si aggrovigliava tra ricordi passati e pensieri funesti.



    Quella mattina, la cucina dei Takahashi era stranamente silenziosa; i due coniugi erano indaffarati in cucina, entrambi svegli di buon’ora. I loro sguardi si incrociavano ogni tanto, quando sentivano dei rumori provenire dalla camera della figlia, ma nessuno disse nulla. C’era un’aria pesante in casa, e le facce tese degli abitanti facevano presagire una mattinata difficile.
    Maemi uscì dalla camera e si diresse in cucina come un fiume in piena; senza salutare, si diresse al tavolo e strisciò rumorosamente la sedia per prendere posto. «La colazione è pronta?»
    Reiko sembrò sobbalzare. «Sì» squittì, facendo un sorriso timido. «Gohan e un po’ di miso shiro. Mi sono alzata molto presto per fartene una tazza».
    Maemi non sembrò impressionata. «Non ce n'era bisogno».
    Sua madre non rispose; si asciugò le mani con un canovaccio, poi si sedette anche lei. «Caro, a tavola».
    «Sistemo qua e arrivo».
    Maemi rigirò il cucchiaio nella zuppa, fissandola senza in realtà vederla. Nella sua testa c’era ancora l’incubo di quella notte, ricordandosi come la sua pelle mutava per trasformarsi in una bambola di legno. E quegli occhi, ancora blu sebbene piccolissimi, assolutamente inespressivi di un burattino inanimato. E l’orrore, i vetri che tremavano…
    «Allora» cominciò Reiko cautamente, cercando di iniziare una conversazione. «Che ha intenzione di fare la nostra neo Chuunin in questa bella giornata?»
    Alla menzione del suo nuovo grado, Maemi di rabbuiò ancora di più. «Mi alleno» rispose seccamente. Cosa gliene importava di cosa avrebbe fatto oggi?
    «I tuoi amici sono stati davvero carini a farci visita, ieri» continuò la donna, determinata a non far cadere in quel modo la conversazione. «Mi dispiace che se ne siano andati così presto».
    Il cucchiaino nella mano di Maemi arrestò di botto il suo corso. La ragazza iniziava ad innervosirsi davvero; sapeva dove voleva puntare sua madre, la conosceva. «O forse intendevi dire: mi dispiace che sei stata così maleducata da mandarli via quasi subito, vero?»
    «Non ho detto questo!» si affrettò a dire Reiko, tutta allarmata. La guardava quasi spaventata, come se davanti a sé non ci fosse sua figlia ma una bomba ad orologeria.
    «L’hai pensato, però, vero?»
    «No...» tentennò un po’ la donna. «Però, be', diciamo… penso che dopo quello che hanno fatto si meritassero qualcosa in più, ecco»
    «Tipo?» chiese Maemi freddamente.
    «Be’, erano così impazienti di sapere come fosse andato l’esame, e tu non hai voluto dire praticamente nulla...»
    «Perché sono cose mie» la interruppe Maemi con un ringhio, ormai sul piede di guerra. «Mie! Decido io a chi e quando dirle!»
    Reiko sembrò volersi fare piccola piccola. «Tesoro, per favore, non pensare che ti stia attaccando...»
    «Ah no?!» esclamò la ragazza alzando sempre più il volume della voce. «Mi credi scema? Pensi che non sappia a cosa stai realmente cercando di dirmi?»
    «Maemi, per favore...»
    «Lo so! Lo so che in realtà non ti va giù che non abbia detto a te cosa sia successo all’esame! Sei una cavolo di ficcanaso che non sa rispettare i miei spazi!»
    «Maemi...»
    La ragazzina aprì la bocca per continuare il suo sproloquio, per lasciar andare la sua furia su una preda facile, ma non fece tempo ad emettere suono.
    All’improvviso, arrivò al suo timpano sinistro un brutto e forte scricchiolio, qualcosa di legnoso che si muoveva. Una cascata di acqua fredda inondò le sinapsi di Maemi; il suo corpo andò in tensione, e la mano si chiuse a morsa sul cucchiaio della zuppa. Per un attimo rimase immobile, mentre dietro gli occhi gli arrivò in un flash la faccia inespressiva della marionetta, di Karasu; sentì un formicolio sinistro al collo, lì dove era stata ferita con lo spuntone avvelenato. Il fiato le si mozzò in gola.
    Girò lentamente lo sguardo verso la fonte del rumore; suo padre era fermo, a fissarla, con la mano che teneva ferma la mensola cigolante sotto il lavandino. La stava guardando con sguardo indecifrabile e dalla posizione assunta sembrava che si fosse gelato a metà movimento. «Ops» disse, richiudendola con un cigolio legnoso. «Scusate».
    La stanza sembrò farsi improvvisamente più fredda. La mente di Maemi partì del tutto: fu investita da una rabbia incontrollabile, che le annebbiò la mente e prese sotto sequestro le corde vocali. Che diavolo, suo padre sapeva che quella dannata mensola faceva un rumore del diavolo!
    «Insomma!» scattò, aggrappandosi con le mani al tavolo come se cercasse un sostegno. «Dovevi proprio aprire quella merda di mensola ora?»
    «Maemi!» esclamò sua madre scandalizzata. «Le parole!»
    «Vaffanculo! Te e le tue buone maniere del cavolo!» riprese lei, alzandosi di scatto e facendo rovesciare la sedia per terra con un brutto rumore legnoso. Aveva i pugni serrati, e la sua mente era in panne. «Sai pensare solo a queste stronzate!»
    Reiko era ammutolita; guardava la figlia come se non la riconoscesse più. Suo padre, dall’altra parte, sembrò riprendere un attimo l’autocontrollo. «Maemi...»
    La figlia non volle ascoltarli; prese il coprifronte dal tavolo con uno scatto irato, e senza guardare nessuno si diresse fino all’uscita. «Lasciatemi in pace!»
    «Maemi, aspetta...» la pregò Reiko, con voce flebile. «Ti prego, se solo ci raccontassi cos’è successo durante l’esame… per favore, non possiamo aiutarti se non ci dici nulla...»
    «Quello che è successo non vi riguarda!» sbottò la ragazzina, aprendo la porta con le mani che tremavano dal nervoso. «Fatevi gli affari vostri!»
    «Sei nostra figlia...»
    Maemi si voltò, e la fissò con uno sguardo cattivo. «No, non è vero» sibilò irata, sbattendo la porta con tutta la forza che aveva. Andò via dalla casa con passo svelto, quasi correndo, mentre si allontanava da quello che credeva fosse la fonte di tutti i suoi mali. Non si era resa nemmeno resa conto delle parole che aveva appena sputato, parole che in vita sua aveva detto solo in un’altra occasione. E come la prima volta, ebbe un effetto devastante per quella donna che, tanto tempo prima, aveva trovato parte del suo cuore in un ospedale di Mitsu.

    Edited by Skipio - 21/12/2022, 17:06
     
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    Ritorno dall'Esame Chuunin
    Atto II: Kyo Ishikawa



    Due lame fendettero l’aria; un fischio anticipò i kunai che con velocità e precisione si andarono a infilzare nel tronco di un grosso albero. Maemi ispezionò il risultato con criticità. Era stato un buon lancio, ma non abbastanza veloce, né preciso. Con frustrazione, si avvicinò a grandi passi per recuperarlo.
    Erano passate esattamente due settimane dalla sua promozione a Chuunin, e dieci giorni da quando aveva rinfacciato ai suoi genitori di non essere veramente figlia loro. La situazione a casa Takahashi, da allora, era rimasta immutata: un gelido silenzio si era imposto tra il padre, la madre e la figlia, un veleno desideroso di strappare i fili ben cuciti di una famiglia unita. Reiko, in particolare, cercava di avvicinarsi a Maemi, di forzarla a parlare e interagire con loro; inutile dire che ottenne il risultato opposto. La ragazzina finì per evitarla, risponderle male e stare lontano da casa. Erano ormai giorni che usciva la mattina presto e tornava la sera; i suoi genitori, per il momento, non le dicevano nulla. Sembravano proprio impreparati, incapaci di capire e gestire la situazione. A Maemi non importava: voleva solo che la lasciassero sola.
    La neo Chuunin sguinzagliò i suoi fedeli shuriken; portandone tre a mano, puntò ai tre rami dell’albero, che si estendevano verso il cielo come a voler scappare. Lanciò il colpo, e le stellette seguirono la traiettoria desiderata. Maemi, con un inizio di fiatone, ammirò il suo operato. Non era andata male, ma c’era ancora un margine di miglioramente notevole, e questo lo sapeva.
    Mentre si riavvicinava per recuperare le sue armi, udì una voce distante chiamarla per nome.
    «Maemi! Qui, Maemi!»
    La ragazza si girò: un ragazzo di qualche centimetro più alto stava avanzando verso di lei; aveva i capelli biondi scompigliati, e il cappuccio in pellicciotto sopra la testa. Le mani erano al coperto dentro le tasche, e dalla bocca uscivano degli aloni bianchi ogni qual volta espirava. Quest’ultimo dettaglio, in particolare, sorprese la Chuunin: non se n’era resa conto, ma faceva un freddo cane.
    «Finalmente».
    «Che ci fai qui?» chiese Maemi, tirando fuori un kunai e mettendosi in posizione per colpire.
    «Ti stavo cercando».
    «E come hai fatto a indovinare che fossi proprio al campo di addestramento?»
    «Non ho indovinato» rispose Kyo, non cogliendo l’ironia della ragazza. «Sono passato a casa tua e tua mamma mi ha detto dove trovarti».
    «Ma certo, mai una volta che si facesse i fattacci suoi, quella!» scattò Maemi, rilasciando il colpo; il kunai volò dritto e preciso, infilzandosi esattamente al centro del tronco. La ragazza si girò, guardandolo con fastidio. «Ora mi dici che vuoi?»
    Kyo continuava a fissarla; aveva qualcosa di strano negli occhi. «Lo sai che ti sono amico, Maemi».
    «E allora?»
    «Non ti piacerà quello che sto per dirti».
    «Fatti dare un consiglio da amica, allora: non dire nulla. Non sono in vena».
    «Purtroppo a noi amici toccano anche questi compiti ingrati» sospirò Kyo, avvicinandosi alla postazione.
    Maemi fece finta di nulla: riprese due shuriken, se li passò velocemente tra le dita, poi ne scagliò uno; poco dopo, lanciò anche l’altro. L’idea era di far virare la direzione del primo colpendolo con la seconda stelletta, ma il tentativo risultò misero; andarono entrambi a impattare l’uno contro l’altra, cadendo in un rovinoso fallimento. La ragazza dai capelli rossi fece uno schiocco con la lingua, infastidita.
    «Stai migliorando».
    «Non abbastanza» rispose seccamente lei, recuperando l’ennesimo shuriken dalla borsa.
    Lo sguardo serio di Kyo indugiò su di lei. «Lo sai che non puoi continuare a fare così, vero?»
    Maemi strinse i denti; perché sembravano tutti così determinati a giudicarla, a farle notare cosa doveva o non doveva fare? Non potevano lasciarla in pace, almeno per un po’? «Non iniziare, che sembri mia madre».
    «Per dio, no» rabbrividì lui. «Senza offesa, ma tua mamma non è tra i maggiori crani che abbia incontrato».
    Maemi non rispose. Dopo un po’, esclamò: «Incredibile come tu riesca a tergiversare attorno alla questione, Kyo».
    «Sono bravo, eh?»
    «Arriva al dunque» disse Maemi a denti stretti; si era girata verso di lui, le mani ai fianchi pronta a fronteggiarlo. Aveva già capito che si doveva incazzare anche con lui.
    Gli occhi di Kyo erano ferrei. Si capiva che avrebbe preferito non dire nulla ed evitarsi la seccatura, ma qualcosa lo costringeva ad andare avanti. «Non so cosa sia successo durante quell’esame, e non mi interessa nemmeno saperlo. Quello che penso però è che devi smetterla di fare la bambina».
    «Smetterla di fare… cosa?»
    «Mi hai sentito».
    Maemi lo fissò; le sue parole erano così inaspettate che le ci volle un attimo per carpirle del tutto. Poi, giunse la consapevolezza, e con essa un incendio di rabbia che solo le peggiori offese sapevano innescare. Non rispose subito, perché sicuramente avrebbe detto qualcosa di cui si sarebbe pentita. Rimase immobile, la mano con il kunai che iniziava a tremare forte. Per un attimo ebbe l’impulso di accoltellare Kyo. «Vattene» sibilò infine. «Non voglio ascoltare nulla delle tue stupidaggini!»
    «È proprio questo di cui parlavo» disse lui, adocchiando il kunai. «Ti stai comportando come una bambina offesa perché non l’hanno fatta vincere a nascondino».
    «Stai zitto! Tu non sai di cosa parli! Non hai idea di quello che ho passato in quella dannata foresta!»
    «Cresci un po’» la rimproverò con severità Kyo, con la voce che iniziava ad animarsi. «E smettila di giustificarti con questo vittimismo da quattro soldi. Tutti i ninja hanno fatto e visto cose terribili. Tu sapevi a cosa andavi incontro quando hai ottenuto il coprifronte».
    «Parli come se sapessi tutto tu!» urlò Maemi. La rabbia e il nervosismo le impedivano di rimanere ferma, e così iniziò a muoversi avanti e indietro, con il corpo scossa da una rabbia che non riusciva a gestire. «Per te è tutto facile, vero, Kyo? Tutto normale, no? Be’, dopotutto cosa dovrei aspettarmi da un ragazzino cresciuto da una pazza squilibrata!»
    «È l'unica arma che sai utilizzare, vero? L'offesa» sibilò Kyo, che però non diede apparente segno di essere stato colpito dalle sue parole. «Lo sai cosa penso? Credo che tu non sia riuscita a battere il tuo avversario, non hai tenuto fede alla perfetta idea di come sarebbero dovute andare le cose, e così te la prendi con tutti. Be’, lasciati dire che se non hai raggiunto il tuo obiettivo, l’unica che devi incolpare sei tu».
    «Smettila!» strillò la ragazzina, con un urlo che rasentava l’isteria, prima di gettare il kunai a terra e avventarsi contro il suo amico. Non sapeva che le stava prendendo, era come se uno spirito si fosse impossessato della sua mente, annebbiandola e facendole fare cosa prive di ogni lucidità. Provava solo un irrefrenabile bisogno di colpirlo, zittirlo, fargli rimangiare tutte quelle stupidaggini senza senso.
    Kyo sembrò aspettarsi quella reazione. Evitò con maestria il suo attacco scartando di lato; nel movimento, le pestò con forza il piede e le agganciò la caviglia con la gamba, facendole una sorta di elaborato sgambetto. Maemi perse l’equilibrio e finì a terra con un tonfo sordo. Fece per rialzarsi velocemente, ma un improvviso peso glielo impedì: era Kyo, con il ginocchio premuto contro la schiena.
    «Non sei migliorata di una virgola nel combattimento corpo a corpo» sentenziò Kyo con uno sprezzo di superiorità. «Schifo facevi e schifo fai tutt’ora».
    «Lasciami!» strillò Maemi, dimenandosi come una pazza. Sentiva la presa del ragazzo sulla sua pelle, il peso che la teneva giù; qualcosa di violento pareva volersi liberare dal suo petto. Nessuno poteva intrappolarla, immobilizzarla, umiliarla. Non l’avrebbe permesso, non più. «Ho detto LASCIAMI!»
    Con uno strattone finale, sembrò riuscire quasi a liberarsi; la presa di Kyo si allentò a sufficienza da permetterle di rotolare di lato. Le mani scattarono al terreno e fece per tirare su il busto, quando un kunai puntato alla gola la costrinse a fermarsi.
    Gli occhi della Chuunin lampeggiarono, spostandosi dal kunai alla faccia dell’amico. Il suo sguardo era deformato in una smorfia di rabbia e disprezzo. «Ti odio, Kyo!»
    «Difficile accettare la realtà, vero?» disse con tranquillità il ragazzo. «È molto più facile arrabbiarsi con qualcuno
    Maemi lo guardò come un animale in gabbia; all’improvviso, quell’incendio di rabbia nel suo petto iniziò a scemare, lasciando un’orribile sensazione di vuoto e smarrimento. I muscoli sul suo volto si rilassarono, e abbassò la testa. Sentiva un’improvvisa voglia di piangere, ma non avrebbe permesso una dimostrazione così palese di debolezza. «Perché mi fai questo, Kyo?»
    Il ragazzo allontanò il kunai. «Perché ti sono amico, Maemi» disse con voce più morbida, alzandosi e porgendole una mano. «Voglio aiutarti».
    «Credi che così tu mi stia aiutando?»
    «Spero che questo riesca a svegliarti» pronunciò lui, ritirando la mano che era stata ignorata. «Purtroppo a volte essere brutali è il miglior modo per mostrare la verità a chi non vuole vederla».

    Edited by Skipio - 21/12/2022, 17:30
     
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    Ritorno dall'Esame Chuunin
    Atto III: Yoshito Takahashi



    Erano le tre e mezzo di notte. Maemi era infagottata nel letto, cercando di trattenere il calore. L’inverno ormai era arrivato, e il gelo di Kiri non era per nulla clemente con gli abitanti, ma non era questo il motivo per cui non dormiva.
    La settimana che seguì quel fatidico incontro con Kyo fu terribile. La rabbia che Maemi sembrava portarsi appresso come un cagnolino obbediente era sparita, scomparsa nel nulla, soppiantata da una sensazione ancora più brutta.
    Aveva smesso di uscire tutti i giorni; al contrario, passava la sua maggior parte del suo tempo in camera, da sola. Non voleva vedere nessuno, non voleva parlare con nessuno, non voleva sentire nulla. Sembrava che, all’improvviso, tutto fosse brutto, che non ci fosse speranza, che lei stessa fosse una causa persa. Non riusciva a scuotersi addosso questa tristezza, creando però un circolo vizioso che alimentava i pensieri più brutti. Era davvero così debole mentalmente da permettere al fallimento dell’esame Chuunin di avere un tale impatto su di lei? Forse sì. Forse non era né forte, né capace, né intelligente come credeva di essere. Forse non era nemmeno una kunoichi discreta, forse sarebbe sempre rimasta seconda a tutti. Forse la sua vita sarebbe stato una continua costellazione di fallimenti. Forse.
    Maermi si girò, poi rigirò di nuovo. La notte era sempre il momento peggiore, perché il corpo costretto al riposo ma la mente che si agitava, scalciava contro il sonno per aggrovigliarsi attorno a una matassa di pensieri che si susseguivano senza un obiettivo preciso, né una meta. All’improvviso, gli occhi blu si aprirono di scatto; con uno sbuffo come di un toro imbufalito, si dimenò per uscire dal piumino. I capelli le andarono ovunque, in mezzo agli occhi e pesino in bocca; li sistemò distrattamente, poi indossò la vestaglia pesante, si infilò le pattine e aprì la porta di camera sua.
    Si diresse in cucina; facendo attenzione a non fare rumore - la stanza dei suoi genitori era lì vicino - Maemi puntò al cucinino. Aprì uno sportello e tirò fuori un piccolo pentolino, poi recuperò il latte e ne versò dentro una generosa quantità. Lo mise sul fornello, poi accese il fuoco. La fiamma viva eruttò all’improvviso, andando a impattare contro il fondo della pentola. Maemi rimase lì ferma, negli occhi chiari il riflesso di quella minuscola fonte di luce. Ripensò a come sua madre mal tollerasse che smanettasse col gas, anche se si era abituata all’idea che maneggiasse armi e bombe da diversi anni. Nella sua testa, ebbe un improvviso moto di stizza; Kyo aveva ragione, sua madre era proprio una stupida. Anzi, sembrava non voler capire, non voler vedere quello che non le piaceva. Ancora non si capacitava che la figlia avesse intrapreso una strada militare, qualcosa che l’avrebbe messa in serio pericolo; Maemi non sapeva se ancora, in fondo in fondo, pensasse che si trattava di una sua “fase”, oppure un’idea momentanea. Forse ci sperava. Ma ormai era troppo tardi: aveva preso il coprifronte da quasi un anno, aveva completato svariate missioni e si era aggiudicata il titolo di Chuunin. E Maemi non aveva alcuna intenzione di ritrattare il suo percorso.
    Il latte iniziò ad emettere bolle, che in superficie eruttarono come tanti minuscoli vulcani. La ragazza spense il fuoco, poi afferrò una tazza capiente dalla credenza e ci versò dentro il liquido bianco. Avvertì il calore nelle mani tramite la ceramica, che si propagò in tutto il corpo dandole una bella sensazione.
    Appoggiò la tazza sul banco da cucina, poi prese il miele da un altro sportello; intinse la superficie quasi collosa con un cucchiaino, attese affinché smettesse di colare e poi lo immerse nel latte. Iniziò a mescolare, il suono metallico della posata che sbatteva sulle superficie del recipiente; rimase per un po’ a fissare il cucchiaio che girava, come ipnotizzata.
    Dal nulla, si sentì un rumore provenire dal corridoio. Il cuore di Maemi fece un balzo in gola, e il cucchiaio si fermò sul posto. I muscoli si tesero, mentre gli occhi scattarono verso la fonte come un cerbiatto in trappola. Erano dei passi, dei passi pesanti che si avvicinavano sempre di più verso di lei, chiunque fosse…
    La faccia con la barba scompigliata di suo padre fece capolino oltre l’angolo; gli occhi semichiusi e coperti dagli occhiali reagirono con fastidio alla luce della cucina, mentre un braccio si alzava istintivamente a ripararli. «Ah, ecco, mi pareva di aver sentito qualcosa».
    «Otto-san!» esclamò Maemi, rilassandosi e tirando un sospiro di sollievo. All’improvviso si vergognò del suo cuore in corsa, e di come avesse avuto paura. La mano sul cucchiaio si strinse a morsa, mentre abbassava lo sguardo. «Che ci fai qui a quest’ora?»
    Il padre si avvicinò al tavolo, strusciò una sedia e prese posto. «Dovrei essere io a farti questa domanda, in realtà».
    Maemi non rispose; continuò a fissare il latte caldo che girava, gli occhi spenti e la mente distratta. Ci fu un attimo di silenzio, rotto solo dal suono delle dita di Yoshito che tamburellavano sul tavolo. «Siediti un po’ qui con me».
    La figlia esitò un attimo, poi si mosse anche lei per sedersi proprio di fronte a lui, poggiando la tazza ancora intonsa sul tavolo in mezzo a loro. Gli occhi erano ancora bassi, e le fattezze del volto parevano scolpite nella pietra.
    Con la coda dell’occhio, notò che suo padre aveva il fantasma di un sorriso tra le labbra. «Ricordi la notte prima della tua inaugurazione all’Accademia?»
    «Sì» rispose lei, senza però che quei ricordi riuscissero a smuoverle qualcosa nel petto. «Non riuscivo a dormire».
    «Già. Eri così agitata» rise lui. «E tua mamma ti ha portata proprio qui, e ti ha fatto una tazza di latte caldo col miele».
    Maemi annuì. Qualcosa le diede fastidio dietro la nuca: aveva dimenticato quel particolare, che ora tornò da lei limpido come non mai. Ricordò la faccia di sua madre, come si era abbassata per porgerle la tazza, manco fosse una bambina, e poi l’aveva riaccompagnata a letto permettendole, solo per quella volta, di portarsi da bere in camera. Qualcosa di caldo parve iniettarsi nelle vene, che però venne subito rimpiazziato da un senso di freddo quando quel bel ricordo sparì, e nei suoi occhi rivide la scena di sua madre che le chiedeva di parlarle, di aprisi a lei… prima che Maemi dicesse quelle fatidiche parole, prima di rinfacciarle che non era davvero sua madre.
    Improvvisamente, un grosso macigno si materializzò sullo stomaco. «Mi dispiace» mormorò lei con gli occhi che le diventano lucidi. «Mi dispiace per quello che vi ho detto».
    Yoshito, con una lentezza studiata, si tolse gli occhiali e iniziò a pulirli con il fazzoletto. Sembrava rassegnato, quasi stanco, ma non arrabbiato. «Lo so che eri in un momento particolare, Maemi» rispose poi con voce calma. «Ma le parole possono essere un'arma terribile. Tua madre c’è rimasta molto male, e anche io».
    A quelle parole, la ragazzina non riuscì più a trattenersi: grossi lacrimoni iniziarono a solcarle le guance, appannandole la vista. «Mi dispiace» ripeté con voce rotta, abbassando la testa e cercando di asciugarsi gli occhi. «Mi dispiace...»
    «Tra non molto farai quattordici anni, Maemi» disse suo padre con sguardo intenso. «Non te ne rendi conto, ma sei ancora tanto giovane. Sbagliare è normale, e continuerai a farlo per tutta la vita»
    «Io non voglio» singhiozzò Maemi, cercando idi pulirsi le lacrime con il dorso della mano. «Non voglio sentirmi così... non voglio che si ripeta...»
    «Questo dipende solo da te, Maemi» specificò lui. «Qualsiasi cosa sia successa durante l'esame... se non ne vuoi parlare, lo accetto. Ma solo tu hai il potere di trarne qualcosa di buono dalle brutte esperienze. Oppure puoi lasciare che siano loro a controllare te».
    «Nessuno mi controlla...»
    «E allora» sorrise lui alzando un dito, come un maestro. «Se tu dici che non puoi che succeda mai più, se non vuoi più ripetere quello che è successo con tua madre, fai in modo che non si ripeta tu. Agisci. Prendi il controllo delle tue emozioni e della tua vita: solo tu puoi farlo».
    Maemi fissò un punto a pochi centimetro sotto gli occhiali di Yoshito, con le dita che continuavano a tormentarsi le unghie. Credette di capire quello che voleva dire suo padre, eppure in quel momento non voleva pensarci, non voleva ragionare. Nulla le sembrava certo, tranne di una cosa.
    «Ho paura, otto-san» mormorò, schiarendosi gli occhi. Non era da lei ammettere simili sentimenti: lei, troppo orgogliosa per farsi vedere così, lei che doveva mostrarsi sempre un passo avanti tutti. Ma con lui era diverso, era sempre stato diverso.
    Yoshito sorrise, poi si alzò e si avvicinò alla sua sedia; Maemi rimase ferma, mentre sentiva la manona di suoi padre che si poggiava sui suoi capelli e iniziava ad accarezzarla. Fin da quando era piccolissima, il suo otto-san aveva un modo peculiare per confortarla: la mano sopra la nuca, con il pollicione che massaggiava la fronte lentamente, in un moto circolare e rassicurante. Improvvisamente, come sotto un incantesimo, Maemi si sentì più calma. «Tutti hanno paura, Maemi» la rassicurò con voce calda. «La differenza è quello che ci facciamo con questa paura».

    Edited by Skipio - 21/12/2022, 18:07
     
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    «Parlato», «Parlato Yoshito»


    Ritorno dall'Esame Chuunin
    Atto IV: Sumo



    «Ma il mio compleanno è tra qualche mese» obiettò Maemi, presa in contropiede. Si trovava vicino al tavolino da té della sala; fino a qualche minuto prima, era seduta su uno dei comodi cuscini, un quadernetto poggiato sulla superficie in legno e una matita in mano, immersa nei suoi appunti su una nuova tecnica che stava imparando: la Mizurappa no Jutsu. Quando aveva sentito la porta aprirsi, e i versi affannati di un uomo di mezza età farsi largo fino alla sala, si era alzata per vedere che diavolo stesse succedendo.
    «E chi ha detto che è per il tuo compleanno?» rispose suo padre con un sorriso, proseguendo a poggiare un pacco per terra. Gli occhi attenti della ragazza andarono subito a ispezionare la novità, notando come di tanto in tanto quasi tremasse. Che diavolo era?
    «Allora? Lo vuoi aprire?»
    «Spero non sia qualche marchingegno dei tuoi, otto-san» sospirò lei, inginocchiandosi per mettere le mani sulla carta. Aprì le due alette velocemente, sentendo arrivare degli strani rumori che la incuriosivano. Tempo di ficcarci la testa dentro, e Maemi capì subito di cosa ci fosse all’interno.
    Si trattava di un cucciolo di cane. Era piccolo, poteva starci sui palmi delle due mani di tredicenne; aveva degli occhioni nerissimi, ed era tutto spelacchiato. Maemi lo guardò con incredulità, rialzando la testa. «Ma…?»
    «Ti piace?» chiese suo padre con un sorriso di aspettativa.
    «Ma dove l’hai preso?»
    «Ti ricordi qualche settimana fa, quando avevo accennato che il fratello del mio capo aveva avuto una cucciolata?»
    «Ma intendi la cucciolata di Akita?»
    «Proprio quella»
    «Vuoi dirmi che questo è un Akita?» esclamò la ragazzina sgranando gli occhi, dando una leggera pacca alla scatola. «Mi prendi in giro? Questa è una razza che vale moltissimo!»
    «Eh… lo so».
    «Dimmi che stai scherzando, non puoi aver speso tutti quei ryo per regalarmi un cucciolo...»
    «Infatti no, il mio capo me l’ha concesso ad un prezzo speciale, che salderò con qualche ora di lavoro in più al giorno».
    Maemi non rispose subito; si prese tutto il tempo di osservare il cucciolo, che muoveva le zampe e il collo con scatti buffi, gli occhi tondi che faticavano a rimanere aperti. «Se non è per il mio compleanno» disse allora la ragazzina, senza distogliere gli occhi dalla creaturina, «a cosa devo questo regalo?»
    Non poteva vedere il volto di suo padre, ma era abbastanza sicura che si fosse fatto teso tutto d’un tratto. Maemi attese pazientemente: aveva già idea della risposta.
    «Be’, per la tua promozione ovviamente» rispose Yoshito con apparente tranquillità, confermando i dubbi della figlia. Chiunque altro non avrebbe notato la nota di disagio nella sua voce, ma Maemi lo conosceva troppo bene per non coglierla. «Rimane un enorme traguardo che è giusto festeggiare».
    La ragazzina dai capelli rossi non disse nulla; allungò le mani per prendere l’Akita dal ventre, alzandolo fino a portarlo al livello del suo viso, causando dei piccoli ma teneri versetti da cucciolo. Maemi lo osservò attentamente, con gli occhi blu rabbuiati all’improvviso. L’Esame Chuunin. Quel piccolo animale era per essere riuscita a superarlo…?
    È morto. La caduta gli ha spezzato il collo.
    Maemi! Che sta succedendo? Aiutami! Maemi!
    Continuava a maledire il tuo nome, sai?
    Non faceva altro che blaterare di come lui ti abbia salvato la vita, e tu lo abbia ripagato con il tradimento
    Mi arrendo!
    Mi arrendo!

    Maemi serrò gli occhi, riportando giù il cucciolo con gentilezza esagerata. Prese un respiro per poi riaprirli, il volto ormai rovinato da un'ombra scura. Per un po' rimase in silenzio, a fissare il suo regalo dimenarsi, senza dire nulla.
    «Sarà tuo in tutto e per tutto, intesi?» chiese suo padre, a spezzare il silenzio. Aveva un tono serio, di chi non ammetteva repliche. «Dovrà essere addestrato, soprattutto. So che sei in grado di farlo».
    Maemi annuì, lo sguardo assente. Era vero: già in passato aveva aiutato ad addomesticare altri animali, sebbene non da sola, e sapeva di poterlo fare anche senza aiuto.
    Yoshito si diede una pacca sulle ginocchia, prima di alzarsi. «Bene! Ora vi lascio soli, dovrà farci l’abitudine di averti in giro. Finché è così piccolo può rimanere in casa, ma superato l’anno di età dovrai rimanere fuori».
    Dopodiché, l’uomo uscì dalle porte scorrevoli che davano al giardino, sedendosi sull’engawa per rilassarsi e godersi un po’ la serata tiepida. Maemi fissò la sua schiena per un attimo, prima di far tornare il proprio sguardo sul piccolo regalo. Lo prese di nuovo tra le mani, portandolo ad altezza occhi. Lo osservò attentamente: era davvero carino, si rese conto. Un piccolo sorriso si insinuò tra le sue labbra, forse il primo dopo settimane di bronci lugubri. «Sumo» disse all’improvviso, accarezzandogli la testolina con il pollice sinistro. «Ti chiamerò Sumo».

    Edited by Skipio - 22/12/2022, 19:24
     
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    «Parlato Maemi» - "Pensato Maemi" - «Parlato Nariko» - «Parlato Ebizo sensei» - «Parlato Ayano»


    Tecnica dello Shuriken Ombra
    Post d'Apprendimento Chuunin




    «Bene, ragazzi… ora passiamo a qualcosa di più interessante»
    Maemi alzò appena lo sguardo dal banco, il suo torpore a malapena scalfito. Quella mattina, un lunedì di metà inverno, la ragazzina dodicenne si era svegliata più assonnata del solito. Le lezioni all’accademia si erano trascinate con malavoglia, complice il fatto che non erano previsti allenamenti fisici. Avevano trattato la storia di Kiri, poi la manipolazione del chakra e ora ripassavano le tecniche base. Tutto abbastanza noioso, considerando che la tecnica della clonazione ormai l’avevano appresa da diversi mesi. “Speriamo sia davvero interessante”, pensò la ragazza, squadrando Ebizo-sensei. Quest’ultimo stava sorridendo, quasi orgoglioso. «Ci spostiamo in biblioteca. È arrivato il momento che siate voi a scegliere un jutsu da imparare, a vostra discrezione»
    La testa di Maemi scattò più su, mentre la classe si riempì di mormorii sorpresi ed eccitati. Sentì un pizzichio al braccio sinistro, e si voltò: la sua compagna di banco e amica Nariko cercava di attirare la sua attenzione. Aveva gli occhi illuminati e un grande sorriso. «Finalmente! È da un sacco che non ci insegnano nuove tecniche!»
    Maemi sorrise e annuì; era vero. Fino ad allora l’insegnante aveva istruito la sua classe nei jutsu più semplici, quelli che venivano considerati standard all’accademia, ma aveva sempre accennato che, al momento opportuno, ognuno di loro avrebbe potuto scegliere quale tecnica desideravano imparare. «Perché ogni ninja» aveva argomentato il sensei, «è unico, e così dev’essere il suo arsenale».
    La ragazzina strizzò gli occhi verso l’amica, e appoggiò la guancia sul braccio. «Già» concordò con un sorrisino. «Era l’ora».
    Il sensei li fece uscire tutti, attraversando il lungo e spartano corridoio fino a raggiungere l’altra parte della scuola. Lì, sulla destra, c’era una porta che dava ad una stanza enorme, piena di pergamene ordinatamente catalogate sugli scaffali di alte librerie. Una volta spalancata la porta, i ragazzi si riversarono dentro come un fiume in piena, creando un mormorio che cresceva sempre più di volume. Il maestro batté due volte le mani. «Ordine e silenzio, ragazzi!» li ammonì in tono severo. «Ognuno scelga una tecnica; il rotolo lo potrà portare in classe dove vi verrà spiegato come procederà l’apprendimento. Avete tempo, per cui scegliete con cura»
    Maemi e Nariko si guardarono attorno, notando come tutti i compagni si stessero già fiondando decisi verso il loro obiettivo; molti sembravano aver già scelto, altri leggevano avidamente diversi rotoli in cerca di quello giusto. In pochi, come loro, sembravano spaesati.
    Nariko si girò verso di lei. «Allora, Maemi… che cosa avevi in mente?»
    «Non sono sicura… faccio un giro. Poi vediamo» rispose, camminando in giro per leggere le varie sezioni.
    C’erano grandi cartelli su diversi scaffali con su scritto “NINJUSTU”, “GENJUTSU”, “KENJUTSU” e via così. La ragazza continuò a spulciare finché non arrivò alla sezione degli Shurikenjutsu. Lì si fermò, e iniziò a ispezionare i rotoli. Accanto a lei, c’era un’altro ragazzo, Kenta, che sembrava assorto nella lettura. Ignorandolo completamente, prese un rotolo e lo aprì, leggendo attentamente di cosa trattasse. Due minuti dopo la richiuse, e lo rimise al posto. Ne cercò un altro, che però fece la stessa fine. Al terzo, Maemi si sentì molto attratta dal nome della tecnica: Kage Shuriken no Jutsu, la tecnica dello Shuriken d’ombra. Iniziò a leggere attentamente l’introduzione, dove veniva spiegato in cosa consistesse la tecnica, a seguire poi i dettagli su come eseguirla. Sembrava un jutsu piuttosto complesso per gli standard dell’apprendista, però… cavolo se era figa. Gli occhi di Maemi brillarono: lo Shuriken d’ombra, come suggeriva il nome, le avrebbe permesso di nascondere uno shuriken all’ombra di un altro, in modo da passare inosservato e colpire di sorpresa l’avversario.
    Senza pensarci ulteriormente, la ragazza richiuse il rotolo, per poi guardarsi attorno; notò Nariko nella zona dei Fuuinjutsu, con il naso praticamente appiccicato a un rotolo, e a diversi metri di distanza c’erano Kyo e Satoru insieme, entrambi chinati su una pergamena di Ninjutsu e intenti a commentare la tecnica. Si girò per andare incontro a Nariko, ma si ritrovò la strada sbarrata dai due esseri più odiosi della classe: Ayano Shimura e Hitomi Yuki. Erano migliore amiche fin da prima di entrare in Accademia, e quello che più le legava era l’atteggiamento da stronzette arroganti. Entrambe si vantavano di avere dei genitori shinobi di discreto livello, il che le aveva certamente avvantaggiate all’interno dell’Accademia, e per questo si sentivano in dovere di trattare a merda tutti quelli che non avevano il loro stesso privilegio. Persone come Maemi, Nariko e Kyo, per esempio. «Trovato qualcosa di interessante, testa di pomodoro?» sogghignò Ayano, con la compagna al fianco che rideva.
    «Lo trovo ogni volta che ti vedo» rispose impassibile Maemi, scartandola e passando oltre. «Una testa che parla senza l’ausilio del cervello è sempre affascinante»
    Aumentò il passo per evitare che la riacchiappassero, e arrivò al fianco di Nariko. «Allora, scelto?»
    Quest’ultima, che non l’aveva notata, sobbalzò e quasi si lasciò scappare dalle mani il rotolo. «Che colpo, Maemi...»
    «Un Fuuinjutsu?» chiese lei alzando un sopracciglio, notando la pergamena. «Da quando ti interessi alle tecniche di sigillo?»
    Nariko fece spallucce, richiudendo il rotolo. «Questa mi ha attratto. E te? Trovato quello che cercavi?»
    «Ovvio».
    «Fammi indovinare: un Genjutsu?»
    Maemi trattenne una risata. «No. Ma neanche lontanamente».
    «Allora dev’essere qualcosa che ha a che fare con i kunai» ipotizzò l’amica, come se fosse la scelta più ovvia. «O gli shuriken, o al limite del filo metallico».
    «Sono davvero così leggibile?»
    «Be’, ci sono solo due argomenti per cui saresti disposta a impegnarti».
    Ridendo, Maemi e Nariko tornarono dall’insegnante. Ancora qualche minuto e gli studenti furono riaccompagnati tutti in classe, ciascuno con la propria pergamena in mano; una volta preso posto, Ebizo sensei prese parola. «Bene, ora che avete tutti scelto la vostra tecnica, vi spiegherò quello che succederà ora: lavorateci voi, a casa, senza aiuto da parte mia. A fine settimana avremo un incontro riepilogativo dove vedrò i vostri tentativi e vi guiderò verso la strada giusta. Dopodiché, continuerete a lavorarci voi fino alla settima successiva e via così, finché non avrete appreso la tecnica al meglio».
    Maemi storse la bocca: era un metodo ben diverso da come erano abituati, e non era sicura le piacesse. Dall’altro lato, però, questo le avrebbe dato modo di dimostrare quanto riuscisse a cavarsela con il minimo di aiuto. Adocchiando le due mostriciattole a diversi banchi più avanti, pensò che loro di certo avrebbero ottenuto tutto l’aiuto che volevano anche a casa.
    Come se le stesse leggendo nella mente, Ebizo-sensei continuò: «Inutile dire che questo metodo è stato ideato per farvi lavorare da soli. Sviluppate il vostro acume e cercate di imparare la tecnica scelta con il minor numero di influenze esterne possibili. Chiaro?»
    Tutti annuirono.
    «Ottimo» sorrise il sensei. «Ora, dato che manca ancora un po’ alla fine della lezione, chi vuole chiedermi qualcosa inerente alla tecnica, venga pure. Attenzione, però, non vi darò consigli su come impararla, siete avvisati».
    Si rialzò un brusio nella classe, e una manciata di persone si alzarono per correre verso la cattedra. Maemi e Nariko rimasero ferme; a quanto pare nessuna delle due aveva da chiedere. La ragazza dai capelli rossi lanciò un’occhiata all’amica. «Dopo scuola vieni a casa mia, allora?»
    Nariko storse la bocca. «Ho il corso, oggi».
    «Anche oggi?»
    Nariko annuì nervosamente, mentre la compagna alzava gli al cielo. «Oh, che palle!»
    «Perché, che volevi fare dopo scuola?»
    «Potevamo esercitarci assieme per queste» e indicò i rotoli davanti a loro.
    Nariko aggrottò le sopracciglie e le si riempì il petto; era una scena simpatica a vedersi, e lo faceva quando era davvero contrariata. «Hai sentito Ebizo sensei? Dobbiamo farlo da sole!»
    Maemi fece un verso di scherno, indicando con un cenno della testa Ayano e Hitomi. «Certo, perché secondo te loro lo faranno davvero?»
    «Non importa» rispose semplicemente Nariko. «Vedila così, se riesci ad apprendere la tecnica prima di loro, potrai prenderle in giro fino alla fine dei tempi»
    Maemi grugnì malamente; avrebbero trovato sicuramente mille scuse, ne era certa. Però, l’idea di dar loro qualcosa di cui vergognarsi non era una bruttissima idea. “Vedrete” pensò, guardando con sprezzo le due compagne lontane. “Imparerò la tecnica in una sola settimana!”.



    Chiunque avrebbe dubitato fortemente di riuscire a imparare la tecnica dello Shuriken d’ombra in una settimana, e a buona ragione. Non aveva nulla a che vedere con i basilari jutsu che erano stati insegnati finora e la naturale propensione e amore per le armi potevano aiutare fino a un certo punto. Ma Maemi non se ne rendeva conto, e continuava a crederci.
    Non era tornata a casa, quel giorno. Non era inusuale, per lei, rimanere dopo le lezioni per sfruttare la sala d’allenamento della scuola per i suoi esercizi; ormai anche gli insegnanti si erano abituati a trovarsela tra i piedi di tanto in tanto. E così la ragazzina si era ritrovata seduta per terra, con il rotolo tra le mani a rileggersi bene la tecnica dello shuriken d’ombra. Aveva capito che, come base, necessitava di un ottimo controllo nel lancio degli shuriken, una cosa non ovvia per una semplice apprendista. La parte intricata, tuttavia, sarebbe stato riuscire a nascondere il secondo shuriken sotto l’ombra del primo.
    Con un sospiro, si rialzò, diede due pacche al sedere per pulirsi per bene, e poi si diresse verso il bancone delle armi. L’accademia, per i suoi studenti, forniva un numero sorprendente di armi diverse, soprattutto di quelle piccole; Maemi era proprio quelle che cercava. Poggiò giù il rotolo ben chiuso, e prese un normalissimo shuriken. Si spostò poi al centro della sala, fronteggiando davanti a sé i tre manichini che ben conosceva. Quei poveri pezzi di legno erano stati trafitti più e più volte dalle sue lame.
    Maemi guardò lo shuriken nella sua mano sinistra, con il metallo opaco e affilato. Si sentiva così a suo agio nel maneggiare quella stellina, come se fosse un atto naturale; eppure, nonostante tutto il tempo passato ad esercitarsi, ancora non riusciva a comandarla come desiderava. I suoi lanci non erano sufficientemente decisi, o veloci, o ancora precisi. Era tra i più bravi della classe nel lancio delle armi, e in quel cerchio ristretto era l’unica proveniente da una famiglia di civili, ma il suo livello rimaneva pur sempre quello di un’apprendista.
    Maemi infilò lo shuriken tra il il medio e l’anulare, stringendo le due dita in modo da fissarlo per bene. Poi si mise in posizione e lanciò: la stella di metallo roteò a discreta velocità, finché non si conficcò ad un fianco del manichino in centro. La ragazza fece un sospiro, ammirando il risultato: lanciare in quella maniera era fastidioso, ma il miglioramente c’era. Doveva perfezionarlo se voleva lanciare insieme due shuriken senza che il secondo venisse notato. Tornò un attimo al banco e questa volte ne prese due, di shuriken; uno lo sistemò come aveva fatto prima, tra il medio e l’anulare, e l’altro lo strinse tra il pollice e l’indice. Non era per nulla comodo, ma ci avrebbe dovuto fare l’abitudine. Fece molleggiare la mano a simulare il movimento del lancio; dopo un paio di prove, si decise a lanciarli insieme.
    Il risultato fu abbastanza schifoso. Lo shuriken tra le prime due dita roteò dritto, come voluto, e si andò a infilzare verso il torso del fantoccio; il secondo, invece, schizzò molto più a destra, andando a mancare totalmente il bersaglio. Maemi tornò in posizione eretta e squadrò il risultato con occhi critici: i due shuriken avevano seguito due traiettorie totalmente diverse. La ragazza si guardò la mano sinistra. “Sarà stata la posizione delle dita” pensò dubbiosa. “Se non sono tutte perfettamente in sincronia, ci sta che poi gli shuriken vadano dove vogliono”.
    Con un sospiro, andò a riprendersi le due stelle acuminate incastrate nel legno del manichino per poi tornare al suo posto. Riposizionò gli shuriken nella mano, esattamente come nel tentativo precedente; riprovò a simulare il lancio, questa volta però facendo attenzione alla posizione delle piccole armi, in modo che, una volta rilasciate, queste avrebbero seguito la stessa direzione. Quando si sentì sufficientemente pronta, eseguì il secondo lancio.
    Questa volta andò un po’ meglio: entrambi gli shuriken colpirono il manichino, ma non ebbero una perfetta sincronia come sperava. Il secondo, a metà volo, aveva deviato leggermente a destra, finendo per colpire il fianco sbagliato dell’avversario fantoccio.
    Maemi sbuffò di frustrazione, ma non si arrese. Se voleva raggiungere il suo obiettivo, doveva abituarsi prima a lanciare in maniera perfetta due shuriken alla volta. E temeva che ci sarebbe voluta tanta, tanta pazienza.

    ….

    «Diamine!» esclamò la ragazza dalla frustrazione, quando per l’ennesima volta i due shuriken non seguirono perfettamente la stessa direzione, andando a impattare due direzioni diverse. Era già il terzo giorno di allenamento, e stava andando più lenta del previsto. Quella parte, in particolare, le stava dando sui nervi: era la più semplice, eppure le stava dando del bel grattacapo.
    Maemi andò di fretta a recuperare gli shuriken, per poi tornare alla sua posizione. Abbassò lo sguardo, puntando gli occhi su quelle taglienti stelline di metallo. Cosa faceva che di sbagliato? Ogni volta controllava la posizione di tutte le dita, per assicurarsi che gli shuriken fossero paralleli e ben fissati tra di loro; e così sembrava, tutto era perfetto prima del lancio. Il problema era durante il volo, quando inspiegabilmente il secondo shuriken deviava. Per quanto fosse già migliorata rispetto a due giorni prima, ancora non era sufficiente.
    Si rimise in posizione, con le armi piccole nella mano sinistra. Questa volta, avrebbe provato qualcosa di leggermente diverso; allargando il braccio all’indietro, piegò il polso nella maniera desiderata e con l’ausilio delle dita modificò leggermente la posizione degli shuriken. Il secondo aveva sempre questa tendenza ad andare troppo verso la destra, e allora, aveva pensato Maemi, avrebbe modificato la posizione di partenza in modo che il lancio lo avrebbe portato dalla parte opposta. Continuò a muovere un po’ le dita, in cerca della posizione perfetta; quando si sentì sufficientemente sicura, provò il lancio.
    Le due lamette rotearono come stabilito e, incredibilmente, il secondo shuriken mantenne la direzione immaginata da Maemi fin quasi alla fine. C’era stata comunque una deviazione che aveva portato lo shuriken ad andare a destra, ma era sensibilmente più leggera rispetto al tentativo precedente.
    «Ah!» esclamò soddisfatta Maemi, vedendo il risultato. «Sì! Finalmente!»
    “Non è ancora perfetto” pensò poi, mentre andava a riacchiappare gli shuriken. “Però la direzione è questa. Devo solo trovare la posizione perfetta delle dita. Ci sono quasi”. Girandosi nuovamente, esibì un sorriso strafottente ai manichini, come a voler dimostrare di poterli finalmente fregare. Ritornò in posa, e questa volta dedicò ancora più tempo alla posizione delle dita; cercò di ricordare come aveva fatto nel lancio precedente, e modificò leggermente la direzione. Dopodiché, lanciò.
    Questa volta, Maemi ottenne l’effetto opposto: il secondo shuriken seguì una traiettoria quasi perfetta, per poi virare un pochino verso la fine. La ragazza osservò il risultato con visibile delusione. “Ancora non ci siamo…” pensò, stringendo i pugni per la frustrazione. Sarebbe dovuta andare a tentativi ed errori, prima di capire il modo perfetto per eseguire il lancio. Sperava di riuscire a perfezionare quella parte entro la fine della serata; ancora non sapeva che in realtà ci avrebbe messo tutto il resto della settimana consessa.

    ….

    «Dai, Maemi, su con la vita!» provò a rincuorarla Nariko, poggiando una mano sulla spalla dell’amica nel tentativo di scuoterla da quello stato deprimente. Maemi girò appena la testa, per fissarla con occhi neri. Quel giorno era di pessimo umore, e lei in particolare aveva questa capacità di farlo notare anche a chilometri di distanza. Ma Nariko non demordeva. «Nessuno è ancora riuscito imparare la propria tecnica, se questo ti consola».
    «Moltissimo» rispose Maemi con evidente sarcasmo, per poi affondare la testa sul banco. «Che vita di merda».
    «Su, su»
    «Se fossi un gatto avrei sette vite di merda»
    Nariko scoppiò a ridere, prima di darle una pacca sulla spalla. «Be’, alla fine Ebizo sensei esiste per un motivo».
    Maemi alzò un poco lo sguardo, pensosa. La lezione sulla nuova tecnica stava per iniziare.
    Ebizo sensei entrò in aula puntuale come un’orologio, e non diede bando alle ciance: si sarebbero trasferiti nella sala di addestramento, dove uno per uno avrebbero mostrato cosa erano stati in grado di apprendere. Maemi notò con piacere che, come predetto da Nariko, nessuno era stato in grado di eseguire la propria tecnica alla perfezione. Persino Satoru, quello considerato il migliore di tutti, non aveva ottenuto la completa approvazione del sensei; Kyo e Nariko dimostrarono una buona base nelle rispettive tecniche, il primo in un ninjutsu elementale e la seconda in un fuuinjutsu. Ebizo sensei elargì consigli a tutti, complimentandosi per l’impegno e gli ottimi risultati.
    Maemi finì tra gli ultimi, e non ne fu molto felice. Si sentiva un po’ nervosa quando consegnò la pergamena della tecnica ad Ebizo sensei, perché non era sicura di aver ottenuto un risultato pari a quello dei compagni.
    Il sensei lesse attentamente il nome del jutsu, poi la bocca gli si allargò in un grande sorriso. «Ah, allora hai scelto lo shuriken d’ombra?»
    Maemi annuì.
    «Be’, devo dire che ti si addice. Vai pure, fammi vedere che sai fare».
    La ragazza esitò un attimo, prima di dare un’occhiata ai suoi compagni; la stavano guardando tutti. Vide i suoi amici con sguardi incoraggianti, i suoi nemici che ghignavano sotto i baffi, ansiosi di vederla fallire, e chi invece aveva solo un vago interesse in lei. Ayano e Hitomi continuavano a spostare lo sguardo tra di loro a lei, lasciandosi andare ad un risolino di scherno.
    Maemi strinse i denti, mentre sentiva la rabbia ribollire. Gonfiando il petto, senza nessuna intenzione di darla vinta, la ragazza si mise al centro della sala, dove nei giorni precedenti si era dedicata all’allenamento della tecnica. Si mise leggermente acquattata, nella sua solita posizione di lancio, e incastrò gli shuriken tra le quattro dita. Percepì bene il contatto della pelle col metallo, e ci lavorò un po’ per trovare la giusta tecnica. Inserire e mantenere bene gli shuriken era fondamentale.
    Una volta che si sentì pronta, tentò il tutto per tutto. Non solo di creare un lancio perfetto di due shuriken, ma di attuare la tecnica in toto. Caricò il braccio, rilassò la mano e la fece scattare in avanti; un gioco di polso, e gli shuriken partirono.
    Le due stelle acuminate rotearono in linea retta; il secondo era proprio sotto il primo, a pochissimi centimetri di distanza, e in perfetta sincronia si andò a infilzare nel legno del fantoccio insieme al suo gemello.
    Maemi sgranò gli occhi, mentre un sorriso le si insinuava tra le labbra; era riuscita finalmente a lanciarli assieme, senza che nessuno dei due virasse di un centimetro. Ce l’aveva davvero fatta.
    Anche il sensei sembrava impressionato. «I miei complimenti, Maemi» esultò, battendo un paio di volte le mani. «Sei già avantissimo per essere la prima settimana»
    «Grazie, Ebizo sensei» rispose Maemi, sinceramente compiaciuta. Con la coda dell’occhio, notò che Ayano e Hitomi non sorridevano più.
    «Direi che sei a più di metà» continuò il maestro, andando a recuperare gli shuriken. «Il lancio in sé è giusto, ma devi concentrarti sulla peculiarità della tecnica. Il tuo secondo shuriken era chiaramente visibile, e questo non va bene. L’idea è quello di farlo passare inosservato sfruttando l’ombra del primo». Alzò la mano con i due shuriken che teneva tra le dita; poi con un lancio deciso, sferrò l’attacco. Maemi osservò con attenzione la tecnica mostrata dal sensei, e capì cosa intendeva: il secondo shuriken pareva davvero nascosto, e se la ragazza non avesse saputo che c’era, probabilmente non se ne sarebbe nemmeno accorta.
    Le due stelle lanciate da Ebizo sensei colpirono con forza e precisione invidiabile i manichini, andando più a fondo di quanto avrebbero mai fatto se lanciati da Maemi. Quest’ultima li osservò ancora: il secondo shuriken, notò, era parecchio più in alto rispetto a quando aveva provato lei. Il trucco stava nel trovare il modo di nasconderlo sotto l’ombra del primo. E lo avrebbe trovato, perché la settimana successiva sarebbe stata in grado di usare perfettamente la tecnica.




    I due shuriken volarono lungo una traiettoria lineare, e andarono a impattare contro il tronco dell’albero. Era il quarto giorno della seconda settimana, e Maemi era a tanto così dal completare la tecnica dello shuriken d’ombra. Aveva provato di tutto per nascondere la seconda stella acuminata, ma l’ombra della prima sembrava non volesse collaborare. E ora, la ragazza iniziava a spazientirsi.
    Quel giorno, sua mamma l’aveva costretta a tornare dopo scuola per badare alla casa, mentre lei andava al centro di Kiri per chissà che commissione importante. La ragazza se n’era enormemente infastidita, ma dato che erano quasi due settimane che non collaborava nelle faccende domestiche, era stata costretta a cedere. La casa, tuttavia, non sembrava necessitare di troppa cura; Maemi avrebbe dovuto spolverare, badare alle piante e, cosa più importante, ammazzare il pollo che sua madre aveva comprato quella mattina per farci un bell’arrosto a cena.
    Tutte cose tediose e che potevano tranquillamente aspettare. Dato che in casa non c’era nessuno, l’apprendista non capiva perché non potesse sfruttare quel momento per allenarsi. Dopotutto, il pollo era al sicuro dentro una gabbia, in giardino. Mica poteva uscire. Per questo Maemi si era concentrata su un albero, che per il momento avrebbe sostituito i fantocci della sala di addestramento. Erano passati venti minuti di tentativi, e nulla faceva pensare che quel giorno sarebbe stato più produttivo del precedente. ”Uffa” pensò con stizza, raccogliendo gli shuriken con passo pesante. “Cosa diamine devo fare di più?! Sembra quasi che lo shuriken sopra sia troppo veloce, sta sempre un passo avanti a quello sotto. Ma non posso farlo andare più piano, e nemmeno farlo partire dopo, non ha senso...”
    Si bloccò di colpo, con la mano a mezz’aria prima di raccogliere l’arma. Un’illuminazione l’aveva colpita come un lampo improvviso. Ma certo! Il trucco stava nel nome stesso della tecnica: Shuriken d’Ombra. Avrebbe dovuto aggiustare la traiettoria dell’arma per assecondare la posizione dell’ombra, che sarebbe variata anche solo di minuto in minuto. “Cielo, che grattacapo” pensò, corrucciando le sopracciglia al pensiero. Che cosa stupida, però, esserci arrivata tanto in ritardo: ora le pareva un’ovvietà. Ed era sicura che fosse un’idea più che giusta.
    Con entusiasmo, la ragazza strappò gli shuriken dalla corteccia dell’albero e si allontanò per riprovare. Questa volta, prima di rimettersi in posizione di lancio, Maemi alzò un braccio, posizionandolo perpendicolarmente al terreno. Guardò giù, e studiò bene l’ombra che si rifletteva sull’erba umida del giardino. Poi aprì la mano e impugnò bene lo shuriken, memorizzando anche la piccola chiazza scura sotto di sé. Infine, si mise in posizione, e provò a lanciare solo una delle due stellette che aveva in mano.
    Non era una prova per la tecnica in sé: voleva osservare l’ombra quando l’arma era in aria, vedere come si muoveva e reagiva alla velocità. Lo shuriken impattò violentemente sul tronco, ma Maemi non ne fu soddisfatta: lo riprese e lanciò di nuovo, e poi di nuovo e poi di nuovo, per ben dieci volte, finché non si sentì abbastanza sicura da ritentare la tecnica aggiungendo l’ulteriore step.
    “Questa è la volta buona, me lo sento” pensò Maemi, impugnando entrambe le armi nella stessa mano e acquattando nella posizione di lancio. Le dita si mossero, cercando di trovare la posizione più comoda per impugnare gli shuriken. La sua mente si schiarì, cercando di pensare solo alla posizione dell’ombra che aveva visto negli ultimi dieci lanci. Fece un respiro profondo per rilassare i muscoli, poi lanciò.
    Il risultato fu mediocre: la stelletta, quella che sarebbe dovuta rimanere nascosta, non risultò affatto sincronizzata con l’ombra della sua gemella, e pertanto apparì visibile e chiara come il sole. Entrambe si infilzarono nell’albero, lasciando l’ennesimo solco sfregiato sul legno ormai martoriato dagli innumerevoli lanci.
    Ritornò alla posizione di partenza, e continuò i suoi tentativi per una mezz’ora buona; fu costretta a desistere all’arrivo di sua madre, che rischiò di prenderla per l’orecchio perché in tutto quel tempo non aveva combinato un bel niente per la casa. Maemi andò fumante ad ammazzare il pollo, sfogando sulla pelle piumata la frustrazione di non essere ancora riuscita ad apprendere la tecnica. Si sentiva vicinissima, mancava soltanto la giusta pratica. Ce l’avrebbe fatta però entro la prossima scadenza?



    «Takahashi Maemi!»
    La ragazza che portava tale nome fece un passo avanti, per poi dirigersi verso Ebizo sensei e porgergli il rotolo della tecnica. Questi lo prese con un sorriso, per poi srotolarla. «La tecnica dello shuriken d’ombra, giusto?»
    «Esatto»
    «Bene, procedi pure. Ricordo che la scorsa volta eri arrivata ad un ottimo punto, vediamo come te la cavi ora»
    Maemi non rispose; si limitò a tornare nel centro della sala. Era parecchio nervosa, complice le ultime due notti insonni, passate ad esercitarsi in gran segreto. Era riuscita a perfezionare quanto possibile la traiettoria dello shuriken, ma fino ad allora non era perfetto. Bastava un briciolo, un chicco di riso per renderla perfetta, e il meglio del meglio sarebbe stato presentarla così alla classe; peccato che, se anche fosse, non sarebbe stata la prima a dimostrare un perfetto esempio di Jutsu riuscito. Alcuni dei suoi compagni, prima di lei, ci erano riusciti, tra i quali Satoru e Kyo, ma anche - purtroppo - Hitomi Yuki. Questa ultima cosa in particolare le rodeva assai; si consolava solo del fatto che Ayano non ce l’avesse fatta.
    Una volta in posizione, sistemò gli shuriken nelle mani, uno tra il pollice e l’indice, e l’altro tra il medio e l’anulare. Si accovacciò e portò indietro il braccio sinistro; fissò per qualche istante l’ombra sotto la propria mano, poi alzò lo sguardo al fantoccio davanti a sé. Fece un respiro profondo, poi un secondo. Ritrasse al palmo un po’ le dita, in modo che ottenessero l’angolatura. “O la va, o la spacca!” pensò, prima di far scattare in avanti il braccio ed eseguire il gioco di polso. I due shuriken lasciarono la sua mano, uno dopo l’altro, come due schegge.
    Chi non fosse stato a conoscenza che quelli erano due shuriken, probabilmente ne avrebbe notato solo uno; il primo roteava a discreta velocità verso il pupazzetto di legno, seguito a ruota dal secondo, a malapena visibile sotto l’ombra. Uno shuriken colpì il torso del fantoccio, e poi, poco sotto, si conficcò anche il secondo con precisione.
    Ci fu un attimo di silenzio, in cui la testa di Maemi non riusciva a processare altro se non il suo tentativo ben riuscito. Ed era meglio di tutti i tentativi che aveva fatto fin’ora. Girò la testa con un sorriso soddisfatto, che trovò seguito in quello orgoglioso del maestro. «Congratulazione, Maemi!» disse Ebizo sensei, incrociando le braccia. «Quella che hai dimostrato è stata una più che discreta tecnica dello shuriken d’ombra. Certo, c’è da perfezionarla, ma come ogni cosa. Sii molto orgogliosa di te, ragazza, perché non è da tutti imparare una simile tecnica dopo solo due settimane»
    «Lo sono, maestro» rise Maemi, influenzata dall’euforia della vittoria. E mentre tornava al suo posto, vicino alla sua amica, passò di fianco al duo delle stronzette. Ayano e Hitomi non stavano ridendo; Ayano soprattutto sembrava di pessimo umore.
    Maemi non resistette: si esibì in un sorriso sprezzante. «Facile come bere un bicchier d’acqua, devo dire»
    Forse ancora più bello della buona riuscita della tecnica, fu vedere le facce viola di rabbia delle due aspiranti kunoichi. Ridendo di gusto, Maemi raggiunse al suo posto, dando il cinque alla sua amica Nariko. Quel giorno, si sarebbero festeggiate due vittore.

    Edited by Skipio - 22/10/2021, 16:42
     
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    Frammenti di Memoria
    Buoni propositi



    «Takeru!» urlò Maemi, guardandosi freneticamente intorno. «Takeru! Takeru!»
    Ma dov’era finito? Attorno a lei c’era un sacco di gente, ma non riusciva proprio a vedere il bambinetto dagli occhi verdi. E intanto, dietro di lei gli schiamazzi si facevano sempre più vicini.
    «Maledetta mocciosa! Vieni qua! Se ti becco…»
    «Fermatela!»
    «Takeru!» piagnucolò la bambina, ormai quasi alle lacrime. Aveva il fiato corto per lo sforzo della corsa e per la paura che le faceva pompare il cuore a mille. Era in fuga da poco, eppure si sentiva già stanca. L’adrenalina e la paura le permettevano di correre più velocemente che mai, ma, sebbene avesse delle gambe svelte e agili, presto l’avrebbero raggiunta. Le salirono le lacrime agli occhi per la rabbia. Takeru… quello sporco bugiardo. Aveva promesso che le avrebbe parato le spalle, in caso le cose si fossero messe male, e invece se l’era filata alla prima opportunità come un coniglio. Che imbroglione codardo. Maemi l’avrebbe spennato vivo non appena si fosse presentata l’occasione… sempre se prima non avessero ammazzato lei.
    Non sapeva nemmeno dove stava andando. Voleva solo seminare quei due uomini, ma così rischiava di perdersi, o peggio… finire in un vicolo cieco.
    «TAKERU!» urlò a squarciagola, attirando l’attenzione dei passanti. Dietro di lei, sentì una voce maschile ululare: «Prendete quella bambina!»
    Maemi rischiò di inciampare nel tentativo di svoltare in fretta ad un angolo, entrando in una stradina più piccola e stretta, molto meno trafficata e che non conosceva. Male, molto male. Non poteva più confondersi tra la folla. “Devo cercare di seminarli continuando a girare angoli” pensò freneticamente. “Prima o poi mi perderanno di vista...”
    Non sapeva che altro fare. Ma lei era solo una bambinetta di sette anni, mentre quelli alle sue calcagna erano uomini fatti di almeno trent’anni, probabilmente gente del posto che conosceva l’area. E poi, essere appena fregati da una mocciosetta del cavolo poteva rendere un uomo estremamente perseverante.
    Maemi gettò un fugace sguardo dietro di sé e imprecò quando vide che i suoi inseguitori ancora la seguivano. Anzi, ora che non avevano tutta quella gente ad ostruire loro il passaggio, stavano guadagnando terreno. Le strade di Chisui non erano particolarmente intricate, e ciò significava che i punti di svolta non erano tanti, né vicini tra loro. Maemi lo notò quando svoltò per la terza volta; non sarebbe riuscita a seminarli in quel modo, e non riusciva più a trovare la strada per la via principale, dove avrebbe potuto confondersi con la massa e svignarsela.
    Tanto valeva smettere di correre, realizzò, mentre sentiva lacrime calde scorrerle lungo le guance. Aveva il petto che le faceva male, il cuore che sembrava impazzito e le gambe tutte indolenzite. Era stanca e gli uomini dietro di lei erano troppo vicini per sfuggirgli.
    Poi, dal nulla, a cinque metri da lei si materializzò un piccolo braccio, sbucato fuori dal terrazzo della casa alla destra di Maemi. Era teso, con il palmo che si apriva e si chiudeva ritmicamente.
    «Kumiko!»
    Maemi ebbe un tuffo al cuore: quella era la voce di Takeru. Come diavolo aveva fatto a spuntare così all’improvviso, in quel preciso posto e momento, poi, era un mistero, ma la piccola non si fece domande. Il grido del ragazzo sembrava un’ancora di salvezza.
    Maemi non riusciva a vedergli il corpo, nascosto dietro il muro, ma solo il suo braccio smilzo. Era un po' troppo in alto perché una qualunque bambina della sua età potesse afferrarlo, anche saltando, ma Maemi era una tipa sveglia e agile. Senza pensarci, poco prima di raggiungere la mano, fece un balzo. Con un piede ben alzato, atterrò per un attimo sulla staccionata di legno lì davanti e la utilizzò come rampa per darsi uno slancio indietro e tese con tutta la sua forza le dita verso quelle dell’amico…
    Ci riuscì: Takeru fu formidabile nel non mollarla, nonostante tutto il peso. La spinta all’indietro di Maemi l’aveva poi portata faccia a faccia con la ringhiera, e non fu perciò difficile afferrarla e issarsi su, per poi cadere rovinosamente all’interno del balcone.
    «Vieni, muoviamo!» esclamò Takeru, che aveva l’aria terrorizzata. Maemi poteva vedere le teste dei due inseguitori attraverso la ringhiera, i loro musi arrabbiati verso di lei e le mani che non potevano più raggiungerla. Stavano sbraitando qualcosa, adocchiando e additando la casa, ma uno strano ronzio e il suono tonante del suo cuore impediva a Maemi di capire cosa dicevano.
    Takeru la prese per le spalle e cercò di tirarla su. «Dai, dai! Puoi riposarti dopo! Su!»
    La ragazza si rimise malamente in piedi. Aveva il viso paonazzo e grondante di sudore, eppure sentiva tanto freddo da tremare.
    Takeru si arrampicò sulla ringhiera laterale e fece un balzo: afferrò al volo il tubo di scarico che percorreva in lunghezza l’intera casa, e prese a scalarlo come fosse una dannata scimmia, utilizzando le spesse giunture del tubo per tenersi saldo e non cadere.
    Maemi proprio non capiva: a vederlo, sembrava una cosa facilissima, eppure sapeva che lei aveva un’alta probabilità di scivolare e cascare giù come un sasso. Eppure non aveva scelta.
    Senza pensarci troppo, la ragazza imitò l’amico e salì sulla ringhiera, fece un sospiro profondo e poi si buttò contro il tubo, avvinghiandolo come se la sua vita ne dipendesse. Inizialmente scivolò, ma senza darsi per vinta strinse più forte il metallo del tubo e, con un grande sforzo delle gambe e caviglie, riuscì ad issarsi su. Ma era estremamente difficile e faticoso, specialmente considerando che Maemi era già stanca. Riuscì a raggiungere il tetto per miracolo, aiutata all'ultimo dall'amico Takeru.
    Grazie al cielo, il tetto era uno di quelli piatti, come molti all'interno di Chisui. La ladruncola si lasciò andare a terra non appena fu in salvo. Ansimava come se avesse corso da tutta la vita.
    Anche Takeru aveva il fiatone, ma più per lo spavento che per il vero esercizio fisico. Si fece cadere di sedere, poggiando le due mani a terra per tenere su il busto. Aveva la faccia bianca e terrorizzata. «Do... dobbiamo muoverci di qua...»
    A Maemi ci volle un bel po' prima che dalla sua bocca uscisse qualcosa che non fosse aria. «Siamo al sicuro... quei due scemi non... non riusciranno a salire fin quassù».
    «Tu non capisci!» piombò Takeru, balzando in piedi. Sembrava sul punto di avere un attacco di panico. «Siamo su un tetto di proprietà privata! Loro sanno che siamo qui! Se avvertono i padroni, o peggio, le autorità locali...!»
    «Io non riesco a muovermi» esalò la bambina. Aveva pensato che, una volta fermatasi, si sarebbe sentita meglio. Al contrario: oltre al dolore che le pervadeva tutto il corpo, sentiva una brutta sensazione allo stomaco. «Penso che sto per vomitare...»
    «Oh no, no, non... argh!»
    Troppo tardi. Maemi girò la testa di lato e si lasciò andare a conati di vomito. Takeru fece un verso disgustato e si girò per non essere costretto a vedere. Arrivò fino ai bordi del tetto e, con un po' di esitazione, guardò giù cercando di essere discreto. Dei due uomini non c'era traccia, eppure gli pareva che i passanti dessero troppe occhiate strane alla casa...
    «Non so cosa stia succedendo» mormorò tremante. «Kumiko, dobbiamo andare!»
    Maemi aveva smesso di vomitare, e a dire il vero con lo stomaco vuoto si sentiva molto meglio. Aveva anche smesso di sudare, ma i suoi muscoli erano tutti deboli. «Io non ce la faccio» racchiò lei, come in fin di vita. «Ma tu va'... lasciamo qui...»
    «Smettila con questi drammi stupidi!» sibilò lui, che se non fosse stato per la pozzanghera di vomito si sarebbe volentieri avvicinato per darle una sberla ai reni. «Questa casa qua di fronte è quasi attaccata» disse, indicandola. Maemi alzò lo sguardo e adocchiò l'ultima abitazione che aveva superato prima di afferrare il braccio di Takeru. Tra i due tetti piatti ci potevano essere due metri di distanza. Il fatto che ci fossero pochi incroci stradali significava che i blocchi di case erano più sostanziosi.
    «Vuoi... saltare?» disse la bambina, con gli occhi sgranati.
    «Perché no?»
    «Perché se cadi ti rompi l'osso del collo, ecco perché no!»
    «Be', tu non cadere».
    «Oh, ma grazie!» esclamò Maemi sarcastica, alzando gli occhi e le braccia al cielo. «Grazie tante! Che stupida! Perché non ci ho pensato prima?»
    Takeru la ignorò. Invece, si avvicinò al divario tra le due case e si mise a contemplarlo. I suoi occhi erano leggermente spiritati, e l'amica riuscì quasi a vedergli gli ingranaggi del cervello a lavoro. «Sì, sono convinto che possiamo farcela» concluse infine, sebbene la sua voce trasudava apprensione.
    Maemi lanciò uno sguardo verso l'altra casa. Takeru aveva ragione, non era un'impresa impossibile, specie per lei che era più alta. Ma con la poca energia che aveva in corpo, sarebbe riuscita a fare un tale salto...?
    «E poi, dopo che abbiamo raggiunto l'altro tetto, che hai intenzione di fare?» chiese invece.
    «Ehm, scendiamo. Potremmo usare ancora i tubi di scarico, oppure vedere se ci sono cornici o qualcosa del genere per appigliarsi...»
    «Potremmo scendere direttamente da quassù, sai».
    «No, no, no, no» esclamò Takeru improvvisamente in preda all'ansia. «Loro... loro sanno che siamo quassù! Staranno solo aspettando che scendiamo, lo so! E poi ci porteranno alle autorità, e loro chiameranno mamma e papà e... e... mi odieranno per sempre!»piagnucolò, portandosi le mani in faccia e scoppiando in un pianto dirotto.
    «Shh! Takeru, ti sentiranno!»
    Ma il bambino era troppo occupato a singhiozzare per sentirla. «Ahhh, voglio tornare a casa! Voglio la mia mamma! Mamma! »
    "Santo cielo, quant'è poppante" pensò Maemi, decidendo finalmente di alzarsi. Scavalcò la pozza di vomito e si diresse verso l'amico, scuotendolo come fosse una bambola di pezza. «Smettila di piagnucolare! Che poi se siamo in questa situazione è tutta colpa tua! Perché non sei venuto ad aiutarmi prima?! Eh?!» ruggì infuriata la ragazzina, cercando di farsi sentire. Alle sue parole, però, il bambino pianse ancora più forte. Allora Maemi gli tolse a forza le mani dagli occhi e gli lanciò un sonoro schiaffo.
    Takeru rimase così scioccato da smettere di piangere. Guardò l'amica come se le fosse improvvisamente spuntata un'altra testa. «Andiamo!» ringhiò lei, prendendogli il braccio e trascinandolo verso il varco che divideva i tuoi tetti. Solo allora lo mollò.
    E si mise a fronteggiare il vuoto. Si avvicinò lentamente al bordo senza protezioni, tanto che le dita dei piedi - ben coperti dai sandali - toccavano l'aria. La bambina guardò giù, e le vennero i brividi. Quella casa aveva solo due piani, ma aveva paura che l'altezza fosse abbastanza per ammazzarla in caso di caduta.
    Deglutì rumorosamente, poi fece quattro grandi passi indietro. «Vado prima io» disse, voltando la testa verso Takeru. Col cuore che rimbombava pesantemente nel petto, Maemi fece un respiro profondo e iniziò la rincorsa. All'ultimo passo spiccò un salto utilizzando tutte le forze che le erano rimaste. Per un attimo, si vide a mezz'aria, con sotto il vuoto, e sentì un’ondata di terrore pervaderle il corpo; si vide spiaccicata a terra, e le venne da urlare...
    Poi fu tutto finito. I piedi toccaro il pavimento del tetto e le ginocchia si piegarono sotto l'improvviso peso. Maemi barcollò un attimo, ma si stabilizzò in fretta.
    Si voltò verso l'amico, con meravigliato trionfo, il corpo animato da una nuova energia adrenalinica. «Yatta! Ce l'ho fatta, Takeru!» esclamò, lanciando i pugni in aria. «Vai, tocca a te!»
    Sebbene spaventato, anche Takeru riuscì a saltare. I due amici, trionfanti come se avessero portato a termine un'impresa epocale, si abbracciarono. Una volta sciolto l’abbraccio, concordarono sul fatto che non c’era tempo da perdere: era meglio se scendevano e sparivano il prima possibile.
    Dopo una breve ispezione, trovarono quella casa molto più comoda da scalare: aveva parecchie cornici decorative e spessi marcapiani, più un balcone al secondo piano. I due ragazzini, cercando di essere discreti, si misero a penzoloni per poi lasciarsi cadere sul terrazzo. Da lì agguantarono uno dei cornicioni e scesero piano, aiutandosi anche con il tubo di scarico.
    «Corriamo, corriamo!» esclamò Maemi non appena i loro piedi toccarono terra. Il cuore era tornato a battere forte, ma questa volta non per paura, ma per l'eccitazione.
    «Dove andiamo?» ansimò Takeru, cercando di starle dietro.
    «Lontano da qui» rispose lei. «Penso di ricordare più o meno dove siamo...»
    E infatti, si ricordava bene. In pochi minuti, i due si ritrovarono nuovamente sulla piazza del mercato. Per qualche istante, entrambi rimasero in silenzio, a scrutare nervosamente la folla intorno per vedere se qualcuno li avesse riconosciuti, oppure se quei due ceffi erano per qualche motivo tornati sui loro passi. Per loro grande sollievo, tuttavia, gli abitanti di Chisui si facevano allegramente gli affari loro. Nessuno si accorse della faccia colpevole e nervosa di quei due bambini che sapevano di averla combinata grossa.
    I due in questione, dopo un sopralluogo ansioso, decisero che erano in salvo. Entrambi si voltarono per guardarsi in faccia, poi scoppiarono in grosse risate.
    «Ce l'abbiamo fatta!» esultò Maemi, iniziando a salterellare sul posto e battendo le mani in preda all'euforia. «Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta!»
    «Sì» rise Takeru, «siamo dei grandi!»
    Ora che il pericolo era passato, ora che entrambi iniziavano a rilassarsi, la paura stava scemando, lasciando il posto all'euforia dell'avventura. Gli avvenimenti appena trascorsi non sembravano più così terribili, e i ragazzini ci risero sopra, mentre si facevano strada per tornare dalla compagnia, la loro famiglia.
    «Visto, che ti dicevo che sarei riuscita a seminarli?»
    «Veramente, se non era per me ti avrebbero preso da un pezzo».
    «Be', veramente, non sarebbe successo nulla se tu non avessi fatto il coniglio!»
    Takeru sbuffò. «Ma, dimmi... alla fine sei riuscita a...?»
    Gli occhi di Maemi presero a brillare, mentre si infilava entrambe le tasche nella maglia. «Te che ne dici?»
    «Dai, Kumiko!» piagnucolò il bambino. «Smettila di tenermi sulle spine!»
    Maemi rise. «Ok, ok... ecco qua». Tolse le mani dalle tasche e, con discrezione, mostrò al bambino cosa teneva in entrambi i pugni: erano due grossi sacchettoni di caramelle, che a malapena erano riusciti a starci dentro le tasche.
    Takeru li squadrò entrambi con desiderio. Fece scattare la mano per afferrare un sacchetto, ma Maemi lo intercettò e alzò un braccio il più in alto possibile, mentre l'altro se lo nascose dietro la schiena, in modo che l'amico non potesse raggiungere nessuno dei due . «Eeeh, no, aspetta un attimo!» disse lei con un ghigno, facendo dondolare in alto il sacchetto. «Dimmi la verità, Takeru... sei davvero convinto di meritarlo?»
    Le orecchie del bambino divennero tutte rosse, mentre sul viso si dipingeva un'espressione tradita e rabbiosa. «Meritarlo? Meritarlo?! Chi si è arrampicato fin sopra una casa per salvarti? Dai, Kumiko, smettila di fare la cattiva e dammi le mie caramelle!»
    Takeru fece un balzo nel tentativo di raggiungere il sacchetto che Maemi faceva ciondolare in alto, ma a quest'ultima bastò muovere un po' la mano per impedirglielo. «Saresti dovuto intervenire non appena i due venditori mi avevano beccata a rubargliele. Perché diavolo non ti sei fatto avanti?»
    «Io... io...» balbettò Takeru frustrato, con gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime. «E' successo tutto in fretta... e poi quegli uomini si sono arrabbiati e... non potevo andare lì dritto da loro... e se se la fossero presa con me?»
    «Hai avuto paura e sei fuggito come un codardo» sibilò Maemi.
    «Non è vero!» si lamentò Takeru, cercando di levar via le lacrime con le mani. «Non sono riuscito a reagire in tempo… e ho cercato di trovare un’altra soluzione. Ma non volevo lasciarti sola, lo giuro!»
    «Bugie!» urlò Maemi, ora davvero arrabbiata. «Sei un piccolo poppante bugiardo! Per quanto ne potevi sapere, quelli mi avrebbero preso in un attimo!»
    «Ma no» piagnucolò Takeru, curvandosi sotto lo sguardo irato dell'amica. «Lo giuro... ti ho seguito... e quando ho visto che strada stavi facendo mi sono arrampicato sulla terrazza e poi ti ho preso... Dai! Per favore!» esclamò, scoppiando in un pianto rumoroso. «Voglio le mie caramelle!»
    Maemi digrignò i denti e serrò gli occhi in un impeto di esasperazione mista a furia. Takeru sì che sapeva essere insopportabile e alle volte, come in quel caso, inaffidabile. Sinceramente, non sapeva se credere o no alla sua storia; non sarebbe stata certo la prima volta in cui quel bambino si inventava balle per ottenere quello che voleva.
    Alla fine, Maemi scagliò violentemente il sacchetto di caramelle dritto contro la nuca di Takeru. «E va bene, tienitele pure!» ringhiò, ancora arrabbiata. «Ma questa sarà l'ultima volta! Non posso proprio fidarmi di te, a quanto pare!»
    Takeru si era abbassato immediatamente a raccogliere il sacchetto per terra, il pianto totalmente dimenticato. Lo aprì subito e con ardore iniziò a riempirsi la bocca di zuccherini. Non commentò.
    «Ricordati di nasconderlo prima di farti vedere da tua mamma» fece Maemi, disgustata un po' per la scena e un po' per la velocità con cui Takeru era passato dal pianto al sorriso soddisfatto. «E mi raccomando, pulisciti la bocca da tutti gli zuccherini. Nessuno deve sapere cosa abbiamo fatto»
    E insieme, raggiunsero la compagnia dove c'erano le loro famiglie. Entrambi, sebbene pensassero che quello fosse stata una splendida avventura, concordarono nel far in modo che una situazione del genere non si ripetesse più.
    Peccato che, a sette anni, i bambini fanno in fretta a dimenticarsi dei buoni propositi e delle brutte esperienze.

    Edited by Skipio - 25/6/2020, 17:05
     
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    «Parlato Maemi» - «Parlato Reiko», «Parlato Altri»


    Frammenti di Memoria
    Mamma



    Maemi si portò una mano a strofinarsi il naso, sentendo il prurito di uno starnuto incombente, e ne approfittò per asciugarsi le un po’ le guance bagnate. Ma la bambina di sette anni non stava piangendo: era semplicemente sola, in corsa nelle strade fangose di Shimayama, sotto un acquazzone che l’aveva infradiciata tutta. Aveva usato una la sciarpa come un velo per ripararsi la testa, e tuttavia non era stato sufficiente. L’acqua si era insinuata tra il cappottino, nelle ciocche scarmigliate, dentro le scarpe fino a congelare i piedi; e, una volta freddi quelli, si era subito infreddolito il resto del corpo.
    Maemi aveva, effettivamente, molto freddo, ma in quel momento quasi non le importava. Si era appena accomiatata dall’amico Takeru per infilarsi in una stradina in terra battuta, che in un batter d’occhio si stava trasformando in un mare di fango in grado di incollarle i piedi per terra. La locanda dei suoi genitori era lì, oltre la fine della via, e la piccola vi si stava fiondando con il cuore a mille, piena di trepidazione e angoscia.
    Aprì con foga la porta, e si fiondò subito sulle scale per raggiungere la loro stanza, dimenticandosi di pulirsi i piedi e guadagnandosi un urlata dall’oste che a malapena sentì. Nella sua testa sembrava esserci un rombo continuo, che attutiva ogni altro rumore esterno.
    Una volta che il corridoio fu superato, Maemi aprì la porta della loro stanza, e trovò sua madre piegata sulle loro borse, intenta probabilmente a sistemare gli alloggi per i loro prossimi mesi lì a Shimayama. Nell’udire la porta che si spalancava, Reiko si girò di scatto, per poi strabuzzare gli occhi alla vista della figlia tutta infradiciata. «Santo cielo, Maemi, come ti sei conciata! Via, via, togliti i vestiti, vado a controllare se il bagno è libero...»
    «Mamma» la interruppe la bambina, fissandola. Aveva uno sguardo strano in volto, qualcosa che solitamente non le apparteneva. Era una sorta di angoscia bruciante, una paura e fragilità ben visibile nei grandi occhi sbarrati. «Mamma… ma tu sei la mia vera mamma?»
    All’improvviso, fu come se il tempo si fosse fermato. Nessuno si mosse, nessuno fiatò. L’unico suono pioggia che picchiettava violentemente sulla finestra, e tuttavia non sembrava in grado di rompere quell’incantesimo che, per diversi secondi, fece sprofondare la stanza nell’immobilità più assoluta.
    La bambina fissava la madre con occhi imploranti, la bocca che tremava e il respiro agitato. Reiko, invece, si era congelata sul posto, gli occhi spalancati e la bocca schiusa per la sorpresa. Per lunghi secondi che sembrarono durare un’eternità, la donna non fece nulla. Poi, sembrò risvegliarsi all’improvviso, negli occhi una lucina di panico che rendeva la voce acuta, quasi isterica. «Ma che diavolo di domande sono, Maemi?!»
    «Hitomo... Hitomo mi ha detto che tu e otto-san non potete essere davvero i miei genitori» spiegò la bambina, con le dita delle mani tremanti che presero a intrecciarsi tra loro. «Che io ero come quelli di loro che sono stati portati via...»
    «Non vengono portati via, tesoro, ti ripeto. Delle famiglie li prendono con sé e danno loro una casa» rispose Reiko in modo quasi automatico, una spiegazione che faceva quasi tutte le volte che andavano a Shimayama. Era l’unica città dove la piccola era riuscita a farsi degli amichetti, un gruppetto di coetanei di un orfanotrofio. Anche se i due genitori non sapevano se considerarli davvero “amichetti”, dato che spesso e volentieri Maemi finiva per fare a botte con uno o due di loro. E non sempre vinceva. «Ma no, questo non è il tuo caso. Hitomo-chan è solo una bambina cattiva e meschina, non dovresti più andare a trovarla, ne parli sempre male…!»
    «Però...» insistette la bambina con voce flebile, fissando la madre negli occhi. «Però è vero che io non somiglio a nessuno di voi due».
    «Ma cosa c’entra, Maemi, non sempre i figli somigliano ai genitori, te l’ho già detto...»
    «Ma Takeru e sua mamma sono praticamente uguali» ribatté Maemi, sbattendo i piedi com’era solita fare quando sapeva di aver ragione. «E anche tu e lo zio Chojiro, avete gli stessi capelli, e vi lamentate sempre delle gambe storte che avete preso dal nonno…!»
    «Casi!» si alterò la donna, iniziando ad alzare la voce. «Sono solo casi... coincidenze! E ora basta con queste sciocchezze, rischi di prenderti un malore se non...»
    «Giuri?» la interruppe bruscamente la bambina, fissandola con aria di sfida. «Giuro solennemente che mi stai dicendo la verità?»
    Reiko fu presa in contropiede, sia dalle parole che dal tono della figlia. Era stata lei stessa a insegnarle, fin da piccolissima, che un giuramento solenne era una cosa sacra, e che non si giurava il falso per nessun motivo al mondo. E ora, quello stesso insegnamento le si stava ritorcendo contro. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse subito. Avrebbe voluto trovare una scappatoia, una giustificazione che riuscisse a tenere in piedi tutto quel casino, ma la sua non era una mente brillante.
    Gli occhi blu di Maemi si riempirono di lacrime. Sua madre non stava giurando. Allora era vero… era tutto vero…
    Le piccole manine si strinsero a pugni; alzò le braccia per poi sbatterle violentemente contro i fianchi, un gesto per scaricare un moto di rabbia improvviso, l’amarezza di un tradimento. «Mi hai mentito!» urlò, prima di voltarsi e correre via, scappare da quella stanza e lasciarsi dietro una donna che, tutta impanicata, chiamava il suo nome, cercando di rincorrerla e impedirle di uscire fuori nella bufera. Una donna che, aveva appena scoperto, non era davvero la sua mamma.

    Edited by Skipio - 4/8/2020, 21:41
     
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    «Parlato Maemi» - «Parlato Reiko», «Parlato Altri»


    Frammenti di Memoria
    Punto di rottura



    Reiko non capiva, proprio non capiva perché dovesse essere tutto così difficile: era piena, piena di tanta merda accumulata negli ultimi mesi, stress per ogni cosa, per il lavoro, la famiglia, ora ci si metteva anche Maemi...
    «Perché fai così?!» strillò Reiko, tenendo saldamente la figlia per la manica, cercando con molta difficoltà di non mollare la presa. Maemi si stava dimenando con tutte le sue forze, cercando di liberarsi dalla presa di sua madre per scappare via, probabilmente tornare a nascondersi da qualche parte. Ormai non era più una novità: ogni qual volta la compagna doveva piantar baracca e burattini per spostarsi alla prossima destinazione, la bambina si era presa il vizio di combinarne di cotte e di crude, causando un visibile ritardo della partenza. La sua tattica preferita era quella di nascondersi, e ci riusciva anche bene, causando un'ondata di preoccupazione e frustrazione nei genitori. Reiko soprattutto aveva preso molto male quel suo nuovo atteggiamento: si vergognava tantissimo con i suoi colleghi, sapendo che era sua figlia a creare tanto disturbo, ma anche e soprattutto perché sapeva che la bambina si stava comportando così per un motivo. Non a caso tutta quella storia era saltata fuori dopo che Maemi aveva scoperto di essere stata adottata.
    Lei e il marito avevano deciso di darle tempo, sperando fosse solo una fase di ribellione dovuta alla recente scoperta. E tuttavia, erano passati già cinque mesi, cambiate quattro città, e ancora la bambina si ostinava. E per Reiko, che aveva anche altre preoccupazioni per la testa, era semplicemente troppo.
    «Tu non capisci!» urlò Maemi, dimenandosi e scalciando con tutte le sue forze. Reiko strinse i denti, aumentando la presa sul braccio della figlia e tirando ancora più forte; sentiva qualcosa fumare all’altezza del petto, un bruttissimo segnale. «Sto perdendo la pazienza…!»
    «Lasciami!» strillò la bimba dai capelli rossi, fissando le gambe sul terreno, per poi emettere un urlo a squarciagola, attirando su di sé gli sguardi allarmati e perplessi dei passanti che conducevano la loro vita per le strane a nord di Tsuyou.
    «Smettila di starnazzare come un’oca!» urlò Raiko, voltandosi verso di lei e accucciandosi in modo da essere alla sua stessa altezza; iniziò a scuoterla leggermente, la faccia deformata dalla vergogna di avere tutti gli sguardi addosso. Ma la bambina non si fermava, anzi, aumentò ancora di più d’intensità, finché…
    La mano di Reiko impattò all'improvviso contro la guancia paffuta della bambina, zittendola e facendola incespicare all'indietro. Gli occhi blu della bambina, che si erano inevitabilmente chiusi durante l'impatto, si aprirono di scatto, fissando il volto furente di sua madre con visibile shock.
    «Non puoi continuare a fare quello che vuoi! Devi crescere un poco!» sibilò Reiko, prendendola di nuovo per il braccio e costringendola a seguirla. La bambina non si oppose, né disse nulla; era ancora sbalordita da quello che era successo, incredula nell’avvertire la guancia rossa e scottante. Non le aveva dato uno schiaffo troppo forte… ma non ricordava che sua madre le avesse mai alzato le mani, neppure una volta.
    Il suo shock durò tanto che nemmeno si accorsa di aver seguito sua madre in completo silenzio, ancora trascinata dalla manica, finché non si ritrovò in una parte discreta della noza nord di Tsuyou, nella parte dov'era accampata la sua famiglia con il resto della compagnia. Non c'era nessun altro lì; si erano forse tutti dispersi per cercarla? Non era improbabile, non sarebbe stata nemmeno la prima volta.
    Reiko si era fermata di botto, per poi girarsi e, senza mai lasciare la presa sul suo braccio, si era accucciata così da essere a pari livello con Maemi.
    «Mi vuoi spiegare perché diamine ti stai comportando così?» esclamò, con le mani tremanti di furia. «Io e tuo padre abbiamo cercato di essere comprensivi, ti abbiamo dato i tuoi spazi, abbiamo provato a starti vicino… perché ci stai rifiutando? Perché ora non vuoi più partire con noi?»
    Maemi la stava fissando, gli occhi tristi che cercavano di non piangere. «Loro… loro mi stanno cercando».
    Reiko sbetté più volte le palpebre, presa in contropiede. «Chi ti starebbe cercando?»
    Maemi non rispose subito; si agitò un attimo sul posto, fissandosi i piedi, prima di mormorare: «La mia mamma e il mio papà».
    A quelle parole, sembrò che un macigno si fosse materializzato nello stomaco della donna, che si bloccò, scioccata. «Perché… perché dovresti pensare che ti stiano cercando?» mormorò, la rabbia momentaneamente dimenticata.
    Maemi tirò su col naso, sbattendo più volte le palpebre. «Perché sì. Lo so! Stanno cercando di trovarmi! È vero!» esclamò, alzando il tono di voce, come se volesse disperatamente convincere sua madre. «Ma non ci riescono, perché…!»
    «Smettila!» scattò Reiko, la voce un misto tra rabbia e angoscia. Aveva la faccia contratta, e sembrava che ogni parola della piccola fosse una frecciata al cuore. «Ti rendi conto di quello che stai dicendo?! Nulla di quello che hai detto è vero, nulla!»
    «Ti sbagli!» strillò allora Maemi, scuotendo la testa e facendo danzare le folte ciocche rosse. Avevea stretto i pugnetti, e sembrava pronta a sbattere i piedi a terra. «Ti sbagli, ti sbagli, ti sbagli...!»
    «Perché?» si infuriò Reiko, incapace di contenere le proprie emozioni. Si alzò in piedi, fissando dall’alto la figlia con espressione tradita. «Perché non ti bastiamo noi! Perché dovresti provare più lealtà verso le persono che non ti hanno voluta piuttosto che noi?! Perché?! Cosa c’è che non va?!»
    La bambina ammutolì, fissando la madre come se la vedesse per la prima volta. Poi, d’un tratto, prese a singhiozzare, gli occhi si riempirono di lacrime e infine pianse, rilasciando un pianto totalmente diverso rispetto a qualunque altro. Era un pianto vero, non le lacrime di coccodrillo tipiche dei bambini capricciosi.
    A vedere quella scena, Reiko si congelò sul posto. Sentire . «No...» mormorò, sentendo i suoi stessi occhi caricarsi di lacrime. Subito si gettò su di lei, abbracciandola. «No, no, no… mi dispiace, Maemi, mi dispiace tantissimo… Shh, calma, tesoro, calma...»
    Ma la bambina non smise di piangere. Ci volle un quarto d’ora buono di lacrime e degli abbracci rassicuranti di sua madre, a cui Maemi parve avvinghiarsi come se la sua vita ne dipendesse, prima che la piccola peste potesse stancarsi. Reiko la riportò a casa, promettendosi di parlare con Yoshito e trovare una soluzione, qualcosa che facesse capire a Maemi la questione dell’adozione.
    Da quel giorno, Maemi smise di nascondersi nel tentativo di ritardare le partenze. Tornò la solita bambina di sempre, come se nulla fosse successo. Nei giorni che seguirono, la coppia provò più volte di intavolare la discussione con la bambina, ma questa si rifiutò categoricamente di parlarne. Se insistevano, lei batteva i piedi, scappava o si arrabbiava, così lasciarono perdere e ben presto si dimenticarono di quello spiacevole periodo. Tutto sembrava essere tornato come era sempre stato.
     
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    «Parlato Maemi» - «Parlato Takeru», «Parlato Altri»


    Frammenti di Memoria
    Scelte




    Maemi stava correndo. Aveva il fiato corto per lo sforzo, ma quasi non se ne accorgeva. Le sue gambe andavano veloci, sempre più veloci. Si stava dirigendo alla Locanda del Bosco, dove da tre settimane avevano soggiornato i membri della sua compagnia. La sua famiglia, tutti gli altri, e il suo unico amico Takeru. Era proprio lui a cui desiderava tanto parlare. Aveva una novità, una novità assoluta, e raramente in tutta la sua vita si era sentita così impaziente di raccontare qualcosa.
    Spalancò la porta della locanda senza tante cerimonie e senza salutare nessuno, né badare ad alcun ché, si fiondò e salì le scale. «Takeru!» urlò, una volta arrivata davanti alla porta dove alloggiava lui coi suoi genitori. Sapeva però che tutti i membri della compagnia erano andati a vedere il nuovo palcoscenico e organizzarsi con il loro benefattore, il signor Takeda. Takeru un dormiglione, pertanto Maemi già sapeva dove trovarlo. «Takeru, apri! Ho una notiziona da darti! Takeru!»
    La porta si spalancò, e comparve la faccia mezza addormentata del suo amico. Era ancora in pigiama. «Kumiko… che diavolo hai combinato stavolta?» mormorò con la voce strascicata, aprendo meglio la porta per invitarla ad entrare.
    Maemi non si mosse. «Stavi ancora dormendo?» disse, quasi indignata.
    «Sono le nove...»
    «È tardi!» decise lei col suo solito tono tirannico, finalmente decidendo di entrare in camera e sedersi subito su uno dei due letti a castello, quello inferiore. Takeru chiuse la porta, poi si avvicinò e si sedette vicino a lei. «Be’, allora?»
    Gli occhi di Maemi si illuminarono al ricordo del perché aveva perso il fiato per arrivare fin lì. «Oh, Takeru, non ci crederai mai! Ho deciso! Ho deciso quello che farò da grande!»
    «In… in che senso?» chiese il ragazzino, preso in contropiede. Non era solito per l’amica uscirsene con questo tipo di discorsi, ma il suo sguardo insolitamente raggiante era riuscito a inquietarlo.
    «Eh, che senso deve avere?» le chiese lei, polemica. «Comunque, ti ricordi qualche settimana fa, quando mi sono fatta beccare da quello con lo spadone, dopo aver rubato questi?» e tirò fuori dalla tasca due pendenti particolari: sulla parte alta avevano un piccolo ciondolo rotondo, da cui poi partiva un lungo e voluminoso fascio di nappe. «Sì, insomma, ho capito che quel tizio non doveva essere uno normale. Ho fatto delle ricerche e... » Maemi trattenne il fiato, creando un momento di suspance, «… è un ninja!»
    Ci volle un attimo per far in modo che Takeru capisse quello che l’amica gli aveva appena detto. «Eh, e…?»
    «Come eh!» esultò la ragazzina, balzando in piedi per la troppa eccitazione. «Mi sono documentata, hai idea di quanto sono forti gli shinobi? Non ho smesso di pensarci da quando ho visto quel ninja in azione. Non sono tagliata per il teatro, e poi non voglio finire bloccata tutta la vita ad essere una nessuno che si rende ridicola per racimolare qualche soldo. Io voglio di più, voglio essere più di così! Voglio diventare una kunoichi!».
    Maemi fece una pausa, perché aveva parlato così in fretta e con una tale enfasi che le mancava il fiato. Fissò il suo compagno di avventura con un sorriso enorme, che tuttavia scemò piano quando vide che Takeru, dopotutto, non era eccitato quanto lei a quell’idea. Tutt’altro.
    Il ragazzo la guardava stranito, quasi non capisse quello che aveva sentito. Notò come le sue sopracciglia fossero corrucciate, e questo era sempre un brutto segno di disapprovazione.
    A Maemi si spense del tutto il sorriso. «Be’? Non sembri molto felice».
    «Stai scherzando, Maemi?»
    La ragazza fu presa alla sprovvista: Takeru raramente usava il suo nome vero, preferendo il simpatico soprannome di Kumiko. Questo vuol dire che era parecchio serio. Per un attimo la ragazzina non rispose, ma prese a guardarlo con crescente ostilità. Ormai aveva capito come sarebbe andata la discussione. «Ti pare che stia scherzando?»
    «Dimmi che non stai facendo sul serio… che non vuoi mandare tutto all’aria per questo capriccio...»
    «Certo che faccio sul serio!» ringhiò lei, portando le mani ai fianchi. «E non è un capriccio, qui si tratta del mio futuro…!»
    Il ragazzo balzò in piedi. «Ma sei impazzita?! Ma cosa hai pensato? Hai idea di quanto sia pericoloso essere uno shinobi? Come fai ad essere così stupida da non capire che finirai ammazzata?»
    «Non alzare la voce con me!» urlò di rimando la ragazzina, puntandolo col dito. «Come ti permetti di darmi della stupida? Tu, poi? Si vede che non ti ricordi, dunque ti rinfresco io la memoria: chi, tra di noi, ha sempre sistemato le situazioni, eh? Chi ti ha tirato fuori dai guai, ogni santa volta? Eh? Chi?»
    «Chi mi ci ha ficcato per primo, in quelle situazioni?» sibilò gelido Takeru.
    «Questo perché sei solo un fifone!» ribatté con sdegno la ragazza. Sapeva di star dicendo cattiverie, e che non era giusto, tuttavia era troppo arrabbiata perché gliene fregasse qualcosa. «Sei solo un fifone! Sono io quella coraggiosa, sono io quella col sangue freddo, sono io che so gestire le situazioni! Per questo so di poter essere un’ottima kunoichi, perché sono brava».
    «Sei solo una sconsiderata!» disse Takeru. «Hai mai pensato poi ai tuoi genitori? Come faranno loro, se tu ti iscrivi a… be’, se fai quello che devi fare per diventare una kunoichi. E il loro lavoro? E la compagnia? Hai intenzione di mettere in crisi tutti?»
    A Maemi venne da alzare gli occhi al cielo. «In crisi... quanto sei melodrammatico, Takeru. Comunque, per essere una kunoichi bisogna per forza risiedere all’interno di Kirigakure no Sato ed iscriversi all’Accademia ninja per qualche anno. Poi non lo so, credo ci sia un esame o qualcosa di simile. I miei dovrebbero ovviamente lasciare la compagnia e trasferirsi a Kiri con me. Potranno non essere contenti all’inizio, ma tanto la compagnia è già in crisi da quando se n’è andato Matsuda e una volta che sarò kunoichi potrò fare davvero i soldi. Non come ora, che fatichiamo persino ad arrivare a fine mese».
    «Lo sai che non te lo permetteranno mai, vero? I genitori di tuo padre erano tra i fondatori della compagnia, per lui è molto importante...»
    «Per questo» sbuffò Maemi come un toro infuriato per essere stata interrotta. «Per questo volevo chiederti aiuto. Devo cercare di convincerli ad ogni costo, e se ti ci metti anche tu....».
    «Io? Ah ma dopotutto io non sono abbastanza bravo a convincere le altre persone...»
    «Su, mo’ non fare l’esagerato...»
    «… sono io troppo stupido, no?»
    «Senti» decretò infine la ragazza, guardandolo con stizza e sfida. «Io ho intenzione, prima dei miei dieci anni, di iscrivermi all’Accademia di Kiri, che tu o miei lo vogliate o meno. Dunque se non vuoi aiutarmi sono fatti tuoi, vuol dire che non sei degno di essere considerato mio amico...»
    «Va bene» disse Takeru, freddo e deciso, fissandola.
    Ci fu un momento di stallo, in cui i due amici si fissavano in cagnesco, e sembrava quasi che si stessero sfidando a chi avrebbe distolto lo sguardo per primo. Poi, d’un tratto…
    «Va bene!» scattò Maemi, drizzandosi bene sulla schiena e rinfoderando gli orecchino nella tasca. «Molto bene. Me ne vado».
    Aprì la porta con un calcio, e poi uscì, tutta infuriata, lasciandosi dietro un Takeru arrabbiato, rammaricato ma anche molto, molto preoccupato.
     
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    «Hai fatto colpo eh?»
    Kisuke lasciò per un attimo le scartoffie che aveva tra le mani, le posò sul banco e si voltò in direzione di Akira, lo sguardo indagatore. Quelle parole, quella voce, quel tono udite tra le mura del suo studio, non potevano significare altro che rotture di coglioni.
    «Di che diavolo stai parlando?» replicò Kisuke.
    «Abbiamo saputo che c'è quella ragazzina dai capelli rossi che va in giro chiedendo di te» spiegò Akira, il tono adesso divertito.
    "Ragazzina dai capelli rossi?" s'interrogò Kisuke mentalmente, ma dentro di sé, ancor prima, aveva già visualizzato la risposta: era Maemi Takahashi. Ciò che davvero avrebbe dovuto chiedersi era perché stesse andando in cerca di lui. Accadeva di rado che qualcuno lo cercasse, soprattutto negli ultimi tempi. Ovviamente facevano eccezione le persone più vicine a lui ed alla sua mansione, ma quando accadeva era un un atteggiamento che gli piaceva poco, dal momento che preferiva stare in disparte e farsi gli affari suoi, in casa sua, nei pochi ritagli di tempo libero che riusciva ad avere.
    «Certo, saputo» sottolineò Kisuke, enfatizzando su quella stessa parola che anche Akira aveva utilizzato. «Ormai, ultimamente, sono stati in diversi a cercarmi. Almeno lei non vorrà farmi la pelle... spero...» disse Kisuke, cercando di ironizzare da solo su quella che ancora, tutto sommato, era una ferita ricoperta di sale.
    «Anche perché a lei andrebbe male» aggiunse l'altro, nel tentativo di smorzare ciò che il Sennin aveva appena detto.
    «Perché, a chi altri è andata bene?» precisò Kisuke con fare stizzito. D'altra parte, era ancora lì, in carne ed ossa, vivo e vegeto. Che poi ci avessero provato, come ad esempio quelli di Kumogakure no Sato, era ben diverso.
    Tra i due ci fu un attimo di gelo.
    «Sapete anche cos'è che vuole da me?» chiese allora il Sennin, spezzando il ghiaccio.
    «No, però sappiamo che ha bisogno di parlarti: chiede dove può trovarti e quando può trovarti. Ovviamente nessuno le ha dato risposte» specificò l'ANBU.
    «Stai cercando di dirmi velatamente che devo occuparmene in prima persona, per farla smettere?»
    «Magari vuole solo un bacino da te» fu la risposta di Akira, mentre le orecchie di Kisuke si sforzarono nel sentire un semplice affermativo.
    «Piantala, avrà la metà dei miei anni» lo rimbeccò dunque il Sennin. Costui non poteva saperlo con esattezza, ma in realtà non si era sbagliato in maniera esagerata sull'età della giovane kunoichi.
    «Sarà lei a non piantarla, Kisuke-san. Hai idea che va avanti così da qualche giorno? Secondo te cosa vuol dire?»
    Kisuke sbuffò. "Ah... pure qualche giorno?" pensò tra sé, riflettendo su ciò che Akira gli aveva detto fino a quel momento ed aggiungendoci quell'ultima ciliegina. Purtroppo, in questo caso, Kisuke sentiva che non stava scherzando, e quando Akira non scherzava era assai affidabile. Lui era un ANBU sotto il comando di Naraku, un sottoposto di Kisuke nella sua Unità Segreta, nascosta persino agli ANBU. Alla luce del sole, Naraku svolgeva la funzione di un Caposquadra ANBU nelle Forze Speciali di Kirigakure no Sato, mentre nell'ombra si sporcava le mani agli ordini di Kisuke. Alcuni degli ANBU sotto il suo controllo avevano il compito di monitorare ciò che accadeva nel Villaggio come dei veri e propri fantasmi. "A quanto pare, mentre badavano ad altro, devono aver avuto sotto gli occhi questo scenario imbarazzante" risolse Kisuke mentalmente, scocciato all'idea di quella figura che la ragazzina gli stava facendo fare.
    «Ci penserò su...» si limitò a dire il kiriano, ma in realtà aveva già deciso che avrebbe fatto qualcosa per togliersi l'impiccio dai piedi. Se quella ragazzina avesse continuato a chiedere di lui in giro, avrebbe continuato a mettere lui in ridicolo ed in difficoltà coloro a cui chiedeva, i quali difficilmente avrebbero parlato per rivelare informazioni pur sapendo.

    Quel pomeriggio stesso, Kisuke si recò da Toshi, dove sapeva vi avrebbe trovato Maemi. A differenza della kunoichi, per lui non era un problema reperire informazioni su chicchessia all'interno del Villaggio. Sapere chi erano, dove abitavano, le loro abitudini e peggio ancora dove avrebbe potuto trovarli in tempo reale per il Momochi era abbastanza semplice, finché si parlava del Villaggio della Nebbia e dintorni. Così, esattamente come dicevano le informazioni che si era fatto riportare in anonimo dagli ANBU di Kiri, trovò Maemi seduta al bancone di un chioschetto lungo la via centrale del Villaggio. Il Sennin si avvicinò, scostò la tendina in alto per entrare e si sedette sullo sgabello di fianco alla ragazzina.
    «Buon pomeriggio, Kisuke-dono» lo salutò il proprietario nonché cuoco. «Faccio preparare il solito?»
    «No, non sono qui per mangiare, Toshi. Mi dispiace» gli rispose, quindi si voltò alla propria destra, in direzione di Maemi. «Ho saputo che mi stavi cercando, ragazzina.»

    ChakraMentaleMalus/Bonus
    » 480»Tranquillo;» Nessuno;
    Fisico» Ottimo
    ψ Tripla Borsa ψ
    ArmiAccessori
    Kunai = 10Shuriken = 20Fili Metallici = 30 mtFili Metallici = 30 mt
    Cartabomba = 5Shuriken = 12Pillole del Soldato = 3Tonico del Sangue = 3
    Palla di Luce = 1Cartabomba Fasulla = 4SpecchioTelescopio
    Makibishi = 30Gokan Sakusou = 5Kit GrimaldelliRotolo per Cadaveri
    ψ Divisa Alternativa ψ
    ArmiAccessori
    Fumogeni = 5CerbottanaRadiolinaTorcia Elettrica
    ψ Foderi ψ
    Foderi Minori
    OttavaTanto
    Fascia
    Taglia Teste
    ψ Tasche ψ
    Taschino da Braccio
    Rasoi = 25
    Doppia Tasca da Coscia
    Senbon = 20Spada Raijin
    ψ Rotoli ψ
    Rotolo Multiplo
    Omoikarui
    Kusarigama Maggiore
    Kunai Ricurvo
    N/A
    Sigilli d'Evocazione
    S. Tre Punte = 30Shuriken Maggiore
    Shuriken = 20Shuriken Maggiore
    ψ Abbigliamento ψ
    Coprifronte Kiri
    Coprinaso in bende
    Copriocchio
    Parabraccia
    Parabraccia Alti
    Parastinchi
    Scarpe con Lama
    Bende
    ψ Mani ψ
    Guanti Rinforzati
    Anello ReiAnello KūAnello Sei
    ψ Note ψ
    » Sedici metri di Filo Metallico sono legati agli Shuriken Maggiori: otto ciascuno;
    » Quattordici metri di Filo Metallico sono legati a due Shuriken: sette ciascuno;
    » Trenta metri di Filo Metalico sono legati ad un Kunai;
    » Tre Cartebomba sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Due Cartebomba Fasulle sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Due Gokan Sakusou sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Una Palla di Luce è legata ad un Kunai;
    » Simulacro dello Squalo applicato sulla Tagliateste;
     
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    «Parlato Maemi» - "Pensato Maemi" - «Parlato Kisuke» - «Parlato altri»


    Maemi era di umore tetro. Ogni tanto, i suoi occhi scuri si alzavano dalla pergamena che teneva tra le mani per prendere un arrosticino poggiato su un piattino giusto giusto a qualche centimetro dalle dita. Quella era una giornata che, per Kirigakure, si poteva dire emblematica: la nebbia, quasi onnipresente, era talmente fitta da sembrare palpabile, una nube soffocante e per nulla invitante. Un'atmosfera che avrebbe fatto passare la voglia a chiunque di uscire di casa, ma non ai kiriani e Maemi men che meno. Perché da quando era tornata dalla missione, starsene a casa era diventato un tormento.
    Era tutto successo dopo il suo rientro da Takumi. L'ospedale, dopo aver visto tutto il sangue incrostato nei vestiti, l'aveva trattenuta più del previso per farle delle trasfusioni. «Per sicurezza» avevano detto le infermiere, dopo averla fatta sedere su una comoda poltrona reclinata. L'avevano anche fatta cambiare per ispezionare le ferite ormai inesistenti, e Maemi ricordò di essersi sentita sollevata all'idea di non doversi presentare a casa così conciata. Ma ovviamente la sua fortuna doveva avere vita breve. Le infermiere si erano anche premurate di contattare i suoi genitori, e la ragazzina ancora si sognava la figura di sua madre che si precipitava da lei, gli occhi iniettati di sangue e in preda a una mezza crisi isterica.
    Un sospiro irritato le uscì dalle labbra, ricordandosi della settimana infernale che aveva passato a causa dei suoi genitori, che la trattavano come una poppante di cinque anni incapace di gestirsi. Invece di essere una kunoichi, una Chuunin, ed aver pure ammazzato ormai cinque persone nell'arco dei suoi quattordici anni. L'unica sua consolazione era il piano che aveva già iniziato a mettere in atto: trovare Kisuke Momochi.
    La kunoichi era passata quella mattina per la torre del Mizukage, dove ormai da qualche giorno chiedeva di poter incontrare quel ninja in particolare, ricevendo tuttavia sempre due di picche. Sembrava che tutti lo conoscessero, o che almeno ne avessero sentito parlare, ma nessuno osava avanzare qualsiasi straccio di informazioni sul suo conto. E se per loro questo atteggiamento doveva risultare un deterrente, per Maemi era al contrario qualcosa che stimolava ancora di più la sua curiosità.
    Per il momento, la tattica era una sola: provare a vincere la battaglia per sfinimento, nella speranza che qualcuno, prima o poi, cedesse. O che mandassero il Momochi direttamente a parlare con lei. Per questo la ragazzina andava sempre alla stessa ora e chiedeva sempre alle stesse persone, perché sperava che uno di quei giorni al posto loro potesse trovarci quella strana mummia ad attenderla.
    E invece, per il momento, ancora nulla. Maemi annegò la sua delusione dentro la pergamena poggiata sul bancone davanti a sé, che aveva appena preso dalla biblioteca proprio lì a due passi. Sospirando, abbandonò lo stecchino ormai privo di carne per prendere l'ultimo arrosticino, un pugno chiuso che pigramente sorreggeva tutta la testa. Aveva abbandonato a casa tutto ciò che avrebbe potuto farla passare per una kunoichi, preferendo indossare abiti da civile: una salopette corta e una maglietta azzurra; i capelli che inziavano ad annodarsi sulle tempie per poi scendere sulle spalle in due trecce strette, permettendo ai lunghi orecchini di fare la loro bella figura.
    Così immersa nella lettura, non si era nemmeno resa conto che il posto affianco al suo era appena stato occupato. Mancò anche di udire le parole del proprietario del chioschetto, e tuttavia non le passò inosservata una voce che riuscì a spedirla, seppur virtualmente, dentro una caverna polverosa dove aveva rischiato di morire.
    La schiena di Maemi si rizzò sul posto, come colpita da una scossa, gli occhi blu che scattarono alla sua destra. Rivide la faccia bendata di Kisuke Momochi, l’unico occhi visibile che dal proprietario del chiosco si spostava verso di lei. Mentre i loro sguardi si incontravano, la kunoichi cercò di non mostrare la propria inquietudine nel vederlo sbucare fuori all’improvviso. Sapeva dove già dove trovarla... era per caso un suo modo per mandarle un messaggio? Che al contrario di lei, lui poteva fare il cazzo che voleva?
    «Ho saputo che mi stavi cercando, ragazzina» disse lui, con apparente tranquillità.
    Al “ragazzina”, gli occhi di Maemi si assottigliarono dall’irritazione. Non rispose subito; distolse lo sguardo dal ninja, procedendo con tutta calma ad arrotolare la pergamena per metterla via. "Mantieni la calma" ragionò lei, senza lasciarsi scomporre. Il piano aveva funzionata, ora doveva solo procedere come stabilito. «Buongiorno anche a te» disse allora, con velato sarcasmo. «Chissà perché non sono sorpresa che sapevi esattamente dove trovarmi, per quanto lo possa trovare inquietante. Comunque...» liquidò lei, scrollando le spalle. «Ti cercavo, sì, ma come ambasciatrice. Ecco qui».
    La kunoichi allungò le mani verso la borsa a tracolla che aveva appeso allo schienale della sedia, pescò quello che stava cercando e lo poggiò con attenzione sul banco, vicino al Momochi. Si trattava di un Omamori, un piccolo amuleto in legno lungo poco più di tre pollici; la peculiarità di quel piccolo oggetto erano le incisioni fatte direttamente sul legno, che formava il disegno di un grande occhio aperto, perfettamente adornato. «È un regalo, l’ha fatto mio padre con le sue mani. È un amuleto porta fortuna molto particolare: i materiali ci sono stati donati dal Tempio di Hasedera, e sono probabilmente gli ultimi benedetti prima della rovina definitiva. Si tratta di un Yakuyoke, nello specifico. Dovrebbe farti da protezione contro i pericoli» spiegò Maemi, con il solito tono di leggero scetticismo ogni qualvolta si parlava di Kami. Tuttavia, per chiunque ne sapesse un minimo, il Templio di Hasedera era molto famoso: vicino alle costo sud-ovest, a diverse ore di camminata da Kiri, si trattava di uno dei templi più antichi e tradizionali di tutto il Paese. Una calamità naturale lo aveva praticamente distrutto ormai sette anni prima, pochi giorni dopo che la carovana dei suoi genitori vi aveva fatto visita. Per sua madre, quello era stato un segno. «Questo è l’ultimo Omamori fattibile con il materiale che ci hanno dato. L’altro l’hanno fatto per me quando sono diventata Genin» aggiunse poi, osservando attentamente la sua reazione. Questo doveva essere, per il Momochi, prova sufficiente di quanto potesse valere per la loro famiglia del piccolo oggettino, e quanto fosse significativo che l’avessero donato proprio a lui, che per loro non era nessuno. Maemi fece un sospiro secco, portando il palmo della mano sotto al mento in modo che sorreggesse la testa. «Ho provato a spiegare ai miei che non era il caso, ma spesso sanno essere irragionevoli. Che dire, se la sono fatta addosso quando sono tornata dalla nostra missione conciata in quel modo e… ecco, questo sarebbe il loro modo per ringraziarti di avermi fatta tornare tutta intera».
    sdgFv3L
    ChakraFisicoMentale
    -150;-Ottimale;-Decisa;
    Borsa
    Armi da LancioAccessori
    -Kunai 10/10;-Radiolina;
    -Shuriken 18/20;-Filo metallico 30/30
    -Cartabomba 3/5;-Kit Grimaldelli
    -//;-Olio Infiammabile 2/2;
    Gilet
    Armi da LancioAccessori
    -Shuriken a Tre Punte 30/30;-Torcia Elettrica
    NA//
    Doppia Tasca da Coscia
    Armi da Lancio
    -Shuriken ad Astro 20/20;
    -//
    Note- Due shuriken con dieci metri di filo accattaco ciascuno;
    - Tre kunai con attaccata una cartabomba ciascuno


    Edited by Skipio - 13/2/2021, 18:21
     
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    Narrato, «Parlato», "Pensato", "Telepatia", «Parlato Copie», «Parlato Evocazioni», «Parlato Maemi», «Parlato Altri».


    «Ti cercavo, sì, ma come ambasciatrice. Ecco qui».
    Kisuke allungò la mano per afferrare ciò che la giovane kunoichi aveva appena poggiato sul banco davanti a loro. Era un piccolo pezzo ligneo, lavorato a mano. Al tatto, i polpastrelli saggiavano il passaggio di sgorbie, pialletti e scalpelli mentre gli occhi non avrebbero mai giurato essere un pezzo prodotto artigianalmente.
    «È un regalo, l’ha fatto mio padre con le sue mani. È un amuleto porta fortuna molto particolare: i materiali ci sono stati donati dal Tempio di Hasedera, e sono probabilmente gli ultimi benedetti prima della rovina definitiva. Si tratta di un Yakuyoke, nello specifico. Dovrebbe farti da protezione contro i pericoli» prese a spiegare Maemi, minuziosa. «Questo è l’ultimo Omamori fattibile con il materiale che ci hanno dato. L’altro l’hanno fatto per me quando sono diventata Genin» concluse, infine, la giovane kunoichi di Kiri, lasciando a Kisuke la riscoperta di quell'oggetto che continuava a rigirarsi tra le dita sin dal primo momento. Ogni faccia, ogni angolo, ogni spigolo, ogni intarsio di volta in volta sembravano poter raccontare una storia diversa.
    Il Momochi osservò incuriosito quel piccolo oggetto, affascinato non tanto dalla sua bellezza quanto più dal valore intrinseco che esprimeva, ora sempre di più grazie a Maemi che gli aveva appena spiegato la sua origine. Il Sennin aveva avuto l'onore di conoscere il vecchio tempio di Hasedera ed aveva sentito diversi anni prima della disgrazia che l'aveva colpito, rimanendo dispiaciuto. Indubbiamente, quel piccolo amuleto aveva un valore molto particolare, ed altrettanto doveva averlo per i genitori di Maemi se uno avevano deciso di ricrearlo per la figlia.
    «Comunque ho fatto solo il mio dovere» asserì Kisuke con fare distratto, mentre avvicinava l'amuleto al naso per sentirne l'odore. Anche solo tirare su col naso due volte - sniff sniff - gli fece percepire le note antiche di quel legno. «Ma su una cosa hai ragione tu: probabilmente non dovevano. Anche perché, eventualmente, sei tu a dovermi ringraziare per averti salvato la pellaccia durante quella missione. Non loro. Purtroppo, i genitori spesso si fanno troppa responsabilità del carico dei figli. Eppure ti ringrazio, per quanto mi riguarda è un pezzo molto importante, in quanto unico e sacro. Lo terrò con me e mi prenderò l'onere e l'onore di custodirlo. Porta i miei ringraziamenti anche ai tuoi genitori, di' loro che apprezzo il gesto e l'amuleto.»
    Kisuke se lo mise in tasca. Avrebbe poi, in un secondo momento, trovato una collocazione adeguata a quell'amuleto. D'altra parte, aveva con sé già il suo storico ciondolo d'argento a forma di mastino e negli ultimi tempi anche il singolare salvacondotto concessogli - in via del tutto eccezionale - dalla Nebbia. Sicuramente avrebbe fatto in modo di trovare un posticino anche per quell'amuleto. "Magari potrei appenderlo al cinturone in cuoio" si ritrovò a pensare il Sennin sbadatamente, alzandosi dallo sgabello, la mano che già sfioravano le tendine corte del chiosco prima di voltarsi.
    «Ora» annunciò Kisuke in un tono volutamente noncurante, un lieve sorriso trattenuto al di sotto delle bende. «Se mi cercavi per questo e basta, io andrei. Ti faccio il favore di toglierti dall'imbarazzo. Alla prossima, cerca di non farti ammazzare nel frattempo, Maemi-chan» concluse Kisuke, facendo per andarsene.
    «A presto, Toshi» salutò poi il cuoco nonchè proprietario, come un vecchio cliente abitudinario qual era.

    ChakraMentaleMalus/Bonus
    » 480»Tranquillo;» Nessuno;
    Fisico» Ottimo
    ψ Tripla Borsa ψ
    ArmiAccessori
    Kunai = 10Shuriken = 20Fili Metallici = 30 mtFili Metallici = 30 mt
    Cartabomba = 5Shuriken = 12Pillole del Soldato = 3Tonico del Sangue = 3
    Palla di Luce = 1Cartabomba Fasulla = 4SpecchioTelescopio
    Makibishi = 30Gokan Sakusou = 5Kit GrimaldelliRotolo per Cadaveri
    ψ Divisa Alternativa ψ
    ArmiAccessori
    Fumogeni = 5CerbottanaRadiolinaTorcia Elettrica
    ψ Foderi ψ
    Foderi Minori
    OttavaTanto
    Fascia
    Taglia Teste
    ψ Tasche ψ
    Taschino da Braccio
    Rasoi = 25
    Doppia Tasca da Coscia
    Senbon = 20Spada Raijin
    ψ Rotoli ψ
    Rotolo Multiplo
    Omoikarui
    Kusarigama Maggiore
    Kunai Ricurvo
    N/A
    Sigilli d'Evocazione
    S. Tre Punte = 30Shuriken Maggiore
    Shuriken = 20Shuriken Maggiore
    ψ Abbigliamento ψ
    Coprifronte Kiri
    Coprinaso in bende
    Copriocchio
    Parabraccia
    Parabraccia Alti
    Parastinchi
    Scarpe con Lama
    Bende
    ψ Mani ψ
    Guanti Rinforzati
    Anello ReiAnello KūAnello Sei
    ψ Note ψ
    » Sedici metri di Filo Metallico sono legati agli Shuriken Maggiori: otto ciascuno;
    » Quattordici metri di Filo Metallico sono legati a due Shuriken: sette ciascuno;
    » Trenta metri di Filo Metalico sono legati ad un Kunai;
    » Tre Cartebomba sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Due Cartebomba Fasulle sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Due Gokan Sakusou sono legate ad altrettanti Kunai;
    » Una Palla di Luce è legata ad un Kunai;
    » Simulacro dello Squalo applicato sulla Tagliateste;
     
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